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Culture
Quel retablo è aggredito e nessuno muove un dito

di Fabio Isman

Tuili, piccolissimo comune sardo, solo mille anime nel Campidano, a cin-quanta chilometri da Oristano e vicino al nuraghe di Barumini, vanta un im-menso tesoro: il polittico del Maestro di Castelsardo, alto cinque metri e mezzo e largo tre e mezzo; forse, l’opera rinascimentale più importante nell’isola. È nella chiesa di San Pietro Apostolo, una sola navata, consacrata nel 1489 ma molto rimaneggiata, prima cappella a destra. Il capolavoro, restaurato per l’ultima volta a metà degli anni Ottanta, è ammalato; e non si riescono a trovare i (pochissimi) quattrini necessari per curarlo. Questa è purtroppo una storia di ordinaria incuria; l’ennesima mancanza di rispetto per un capolavoro del nostro patrimonio artistico, e neppure tra i meno importanti.
La superficie dipinta delle dieci scene da cui è composta la macchina d’altare è ora pervasa da una ventina di piccoli foglietti di carta di riso, per bloccare altrettanti sollevamenti di colore; e i ponticelli di legno che la colle-gano all’impalcatura d’alluminio da cui è sorretta, un intervento dell’Istituto del restauro negli anni Settanta, sono tarlati: se gli infestanti animaletti si propagassero alle tavole, sarebbero dolori ancora più gravi. E loro, si sa, sono assai veloci a scavare e a moltiplicarsi.

Lanciano l’allarme una guida ambientale del luogo, Roberto Sanna, il sin-daco Celestino Pitzalis, e Lucia Siddi, funzionaria della Soprintendenza di Cagliari. Dice Sanna: «Ogni giorno lo vedo in quelle condizioni, e ci sto ma-le». Dice il sindaco: «Non è da poco tempo che cerchiamo i fondi per potere intervenire. E bisogna farlo con urgenza. In chiesa c’è anche un organo im-portante, un Mancini del 1753, pure aggredito dai tarli». Anche Lucia Siddi si dà moltissimo da fare per i malanni del retablo: «L’ultima volta, era intervenuta Franca Carboni, di Genova; l’ha restaurato tra il 1984 e il 1986; è una sarda, e ogni anno passa a controllare il lavoro, quando torna sull’isola. È stata lei ad applicare i foglietti di carta di riso, una decina di mesi fa. Il problema è che la chiesa soffre di una terribile umidità: costante, però circa del novanta per cento. Il progetto di restauro l’ho preparato: costa appena trentamila euro; poco più di sessantamila se si climatizza anche la cappella, che ne avrebbe tanto bisogno. Manca soltanto il capitolato dei lavori». Ma la Soprintendenza è senza fondi: «Sono quattro anni che non c’è un euro, nemmeno uno, per le missioni: per poter controllare lo stato del patrimonio sul territorio». La scorsa estate, Lucia aveva pensato di partecipare a un bando della Regione; ma niente da fare: riguardava i sistemi museali. «Anch’io sto cercando chi intervenga; ora sto provando con la Fondazione del Banco di Sardegna, speriamo proprio», spiega il sindaco.

Eppure, non parliamo di un’opera secondaria. La commissionano i coniugi Giovanni e Violante Santa Cruz, signori del luogo, per l’inaugurazione della chiesa; è completata entro il 4 giugno 1500: ne fa fede il pagamento. Cornici dorate e gotiche in legno separano le tavole. La centrale è la Madonna in trono, circondata da santi; quella superiore, la Crocifissione; ai lati, i santi Giacomo e Paolo, Pietro e Michele arcangelo; altri sei santi ancora nei polvaroli, gli spioventi della cornice, con quattro scene della vita di san Pietro apostolo nella predella. Autore ancora ignoto, perché da sempre si dibatte su chi sia questo Maestro di Castelsardo, secondo il nome che dalla sua opera nella città omonima gli diedero Walther Biehl e Carlo Aru nel 1917: chi propende per il cagliaritano Gioacchino Cavaro; chi per lo spagnolo Martí Torner (il primo è Foiso Fois, nel 1983); chi per i pure iberici Michael Spanya e Joannes Dunyat, che nel 1497 sono a Cagliari. Franca Persia dell’Enea ha esaminato l’opera di Castelsardo (del suo restauro dà conto un bel librino, Leggere l’invisibile) e vi ha trovato caratteristiche in comune con altre opere di origine sicuramente ispanica. Il maestro è stato studiato da Maria Grazia Scano Naitza: in un convegno del 2012 ha ricostruito le ipotesi di un secolo, partendo dal «grande rilievo che ebbe la lunga presenza in Sardegna di Joan Barceló». Anche se nella tesi di dottorato del 2014, 720 pagine, Enrico Pusceddu ipotizza l’esistenza sull’isola di almeno due artisti, chiamati così; e nel Maestro di Castelsardo identifica un Joan Barceló II, sedi e botteghe a Cagliari e a Sassari, contatti comprovati con la Corsica.

Comunque sia, e chiunque egli sia, il Maestro di Castelsardo ha lasciato alcune splendide realizzazioni: il Retablo della Porziuncola già nel chiostro a San Francesco di Stampace a Cagliari, poi smembrato, e di cui quattordici frammenti sono nella Pinacoteca dello stesso capoluogo; altre due pale a Santa Lucia di Tallano, in Corsica, e nella basilica della Santissima Trinità di Saccargia (splendida, in mezzo al verde della campagna, non lontano da Sassari); mentre è a Birmingham la tavola centrale della pala già nella chiesa di Santa Rosalia a Cagliari. Gli ultimi capolavori ascrittigli sono, appunto, i retabli di Tuili e Castelsardo. Opere che «non risparmiano inattese e repentine sorprese», dice Francesco Tamponi, presbitero a Castelsardo. Rese ancor più preziose da oro, argento, cinabro, azzurrite, malachite e lacche. Il Ministero ha restaurato tre delle tavole di Castelsardo; occorre che adesso pensi, assolutamente, a Tuili; lui, o chi per lui, perché sarebbe un autentico delitto lasciar ammalare ancora di più un simile prodigio, l’opera più completa dell’ignoto maestro che si sia conservata “in situ”.

Lo stesso Pusceddu ci vede, per la prima volta, precisi riferimenti alla grafica del Nord Europa, chissà come giunta, così sollecitamente, fin qui; del resto, la sua bottega era «dichiaratamente dedita alla produzione di pitture tratte da citazioni, riferimenti e modelli della contemporanea produzione a stampa», scrive ancora Pusceddu, citando dettagli del Calvario di Tuili (attribuito allo stesso artista) ripresi da due xilografie di Albrecht Dürer del 1496 e del 1500 (ma, in quell’anno, l’opera è finita e pagata), e nota anche altre similitudini. Insomma, un’opera importantissima, il Retablo di Tuili, e con nobilissime origini. E di poco posteriore, nella stessa chiesa della piccola città, è un altro retablo: quello della Pentecoste, poco più grande, nella cappella dedicata a san Giovanni Battista, di autore ignoto e datato 1534.
La chiesa conserva anche due organi pregiati, ed entrambi necessitano di urgenti soccorsi, come abbiamo accennato, perché anch’essi preda dei tarli: un piccolo positivo del 1753 di Carlo Mancini, «un celebre fabbricante napoletano, esponente di primissimo piano che imparò il mestiere in famiglia: avevano bottega nell’attuale via Medina prospiciente al porto», racconta Roberto Milleddu, cui si deve un regesto di questi strumenti nell’isola edito nel 2014; e nella cantoria sul portale d’ingresso, un altro strumento del 1883, realizzato a Pistoia, della ditta Agati-Tronci come il Mancini restaurato dalla Soprintendenza nel 1989. Insomma, Tuili significa capolavori insigni, ma anche un s.o.s. in piena regola. Invece, ci si preoccupa tantissimo, e tantissimo ci si mobilita, solo per i grandi musei. 

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