Burnout e fughe dal lavoro, l'allarme di Unobravo: "Ignorare il benessere mentale ha un costo altissimo" - Affaritaliani.it

Economia

Burnout e fughe dal lavoro, l'allarme di Unobravo: "Ignorare il benessere mentale ha un costo altissimo"

Il 42% dei dipendenti non riceve alcun supporto psicologico dall’azienda e il 65% pensa di lasciare il lavoro. L'intervista a Valeria Fiorenza Perris, Direttore Clinico di Unobravo

di Redazione

Unobravo: "Solo un terzo si sente in un ambiente psicologicamente sano. Ecco il conto salato che le aziende fingono di non vedere"

La salute mentale sul lavoro? Ancora troppo spesso ignorata. E chi ne paga il prezzo sono soprattutto i 30-39enni: secondo i dati di Unobravo, ben il 65% ha pensato di lasciare il lavoro, o lo ha già fatto, per colpa di stress e burnout. A peggiorare le cose, c’è un altro dato poco rassicurante: 4 lavoratori su 10 (il 42%) dicono che la loro azienda non offre alcun supporto psicologico. Zero benefit, zero ascolto. Affaritaliani.it ne ha parlato con Valeria Fiorenza Perris, Direttore Clinico di Unobravo, per capire cosa non funziona e perché le aziende fanno ancora finta di niente.

Oggi si parla moltissimo di benessere in azienda, ma i dati mostrano che la maggioranza dei lavoratori si sente ancora invisibile sul piano emotivo. Dove si inceppa, secondo lei, la narrazione aziendale sul "prendersi cura delle persone”?

Come psicologi notiamo ancora un grande scollamento tra la narrazione del benessere in azienda e la realtà vissuta dai lavoratori. Solo un terzo percepisce il proprio ambiente come psicologicamente sano, mentre il 42% dichiara di non ricevere alcun supporto per la salute mentale. Molti si sentono costretti a fingere di star bene, perché la vulnerabilità emotiva non è ancora riconosciuta come parte legittima dell’esperienza lavorativa. La sicurezza psicologica non può essere trattata come un “plus”: è la base per lavorare con equilibrio. Finché non sarà normalizzata, la cura resterà una promessa non mantenuta.

Il 73% dei vostri psicologi conferma che la frase più ricorrente è: “Voglio farcela da solo/a”. Secondo lei questa è una fragilità o un’eredità culturale tutta italiana?

Il desiderio di “farcela da soli” rappresenta prima di tutto un’eredità culturale, di cui ancora fatichiamo a liberarci. Per l’81%, la salute mentale è ancora percepita come una debolezza, e a molti è stato insegnato che mostrare fragilità è una colpa. Il 73% degli psicologi che collaborano con noi riporta questa frase come la più ricorrente, segno di quanto sia difficile, ancora oggi, chiedere aiuto. Non è una fragilità, ma il riflesso di uno stigma radicato. Il disagio emotivo, invece, è parte della condizione umana. Riconoscerlo e affrontarlo è un atto di consapevolezza e di cura per se stessi.

Il 38% preferisce mentire sul motivo per cui si prende un giorno libero per motivi psicologici. Il tabù è ancora tutto sulle spalle del lavoratore?

Sì, troppo spesso il peso del tabù grava ancora troppo sulle spalle del lavoratore. Il 38% preferisce mentire quando si assenta per motivi legati alla salute mentale: un dato che ci racconta quanto sia ancora difficile sentirsi legittimati a prendersi cura del proprio benessere psicologico. Dalla nostra esperienza clinica in Unobravo, emerge chiaramente che ci sono piccoli segnali di apertura – metà degli italiani è disposta a dire che va dallo psicologo – ma parlare apertamente di burnout o attacchi di panico risulta per molti ancora molto complesso. Serve un cambiamento culturale che parta anche dai luoghi di lavoro.

Tra i 30 e i 39 anni, quasi 7 su 10 valutano di mollare tutto. La generazione più formata, ma anche più esausta. Cosa manca nel dialogo tra aziende e lavoratori di questa fascia?

La generazione tra i 30 e i 39 anni è tra le più qualificate, ma anche tra le più colpite da stress e burnout. Eppure, il dialogo con le aziende su questi temi spesso non va oltre la superficie. Se è vero che oltre la metà si sente libera di esprimersi, quasi un terzo ha ancora paura di sembrare debole mostrandosi vulnerabile e il 12% si sente costretto a indossare una maschera. Quando il benessere psicologico non è realmente integrato nella cultura aziendale, le conseguenze possono essere importanti, sul piano personale ma anche professionale. È lì che il dialogo si spezza: manca spazio per l’autenticità.

Quanto costa ignorare la salute mentale in azienda? In termini di produttività, assenteismo e turnover: avete dei dati o stime concrete?

Ignorare la salute mentale in azienda ha un costo altissimo, spesso sottovalutato. Lo stress lavoro correlato è la prima causa di malessere psicologico tra gli italiani. E non si esaurisce da solo: si accumula, si cronicizza e porta via risorse preziose. Il 18% dei lavoratori ha già lasciato il proprio impiego per stress o burnout — una percentuale che schizza al 65% tra i 30- 39enni. L’indagine MINDex che abbiamo condotto mostra quanto l’ambiente lavorativo incida: chi lavora in presenza è più stressato (43%) rispetto a chi lavora da remoto (27%). Il benessere non è un “extra”, ma una leva concreta di sostenibilità aziendale.”

E se non bastasse offrire uno psicologo aziendale? Quali altri strumenti – concreti – servono per creare davvero ambienti “psicologicamente sani”?

Inserire uno psicologo in azienda è un primo passo importante, ma da solo non basta. Per creare ambienti davvero psicologicamente sani, servono cultura, formazione e ascolto continuo. Il posto di lavoro può essere terreno fertile o addirittura tossico per la salute mentale. È lì che si gioca la partita. Oltre il 70% dei lavoratori accoglierebbe con favore un supporto psicologico offerto dall’azienda, ma la vera svolta arriva quando si smette di considerarlo un benefit e lo si integra in una cultura organizzativa che normalizza il dialogo sul benessere, senza stigma e senza eccezioni.

Guardando al futuro: quali sono, oggi, i segnali positivi che vede nel rapporto tra aziende e salute mentale? Sta davvero cambiando qualcosa?

Dai risultati della nostra indagine MINDex, notiamo segnali incoraggianti: il 61% dei professionisti rileva un abbassamento dell’età media dei pazienti, con le generazioni più giovani descritte come più aperte e consapevoli rispetto alle precedenti. È un cambiamento culturale che inizia a riflettersi anche nel mondo del lavoro. Sempre più persone portano in terapia il bisogno di stabilità e sicurezza psicologica (41%) – una richiesta che può orientare le aziende verso ambienti più attenti, capaci di andare oltre le sole logiche di efficienza e produttività.”