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Economia
Coronavirus, il vero cura-Italia? Tagliando le tasse. Il debito può aumentare
(fonte Lapresse)

Per dare conto di che cosa sia l’interesse di un Paese occorre, prima di tutto, comprenderne la natura, le caratteristiche, così come le sue peculiarità culturali ed identitarie. Essere consapevoli della decadenza della cultura italiana negli ultimi decenni è imprescindibile per mettere il paese in condizione di recuperare quell’idea di sé che costituisce il fondamento stesso di una nazione ed è alla base della democrazia. Parliamo di cultura economica, di politica industriale, di assenza dai grandi progetti e investimenti tecnologici e di ricerca.

L’attuale emergenza sanitaria sta avvicinando l’Italia a quella che si profila come la più grave situazione dagli ultimi 75 anni. L’accanimento contro la sanità pubblica ha chiuso ospedali, presìdi di pronto soccorso, punti nascita, reparti di terapia intensiva e di rianimazione. Dopo aver subito attacchi per decenni, il sistema sanitario nazionale è oggi prossimo al collasso: un collasso che comprova il fallimento di un modello basato sulla svendita del patrimonio pubblico, sullo smantellamento dell’intervento dello stato - pur con tutti i suoi limiti - nell’economia. 

Questo arretramento ha creato di fatto solo una serie di rendite di posizione private, fatte salve alcune eccezioni; e ha determinato la cancellazione di ogni direzione di politica industriale. Occorreva privatizzare tutto - si sosteneva - perché il mercato si sarebbe autoregolato; svendere tutto, per abbassare il debito pubblico (cosa peraltro neppure avvenuta). La “sindrome d’inferiorità” descritta da Enrico Mattei ha portato l’Italia a compiere scelte dannose per l’economia del paese, per la sua cultura e per la sua dignità.

Tuttavia le difficoltà e i sacrifici che si prospettano all’orizzonte possono, se affrontati con determinazione e risolutezza, essere la base su cui costruire un nuovo Risorgimento del Paese. A condizione di abbandonare quel fare indolente, passivo e a tratti nichilista, alimentato anche da provvedimenti via via approvati: esempio su tutti il reddito di cittadinanza, che ha sicuramente una valenza sociale nel sostegno alle fasce più deboli, ma che ha contribuito a consolidare nel paese il pensiero che il lavoro possa essere una eventualità, anziché l’unica scelta possibile per il sostentamento primario.

Molti sono stati gli errori commessi negli ultimi anni, errori che hanno portato a subordinare l’interesse del paese a retoriche vicine alla burocrazia finanziaria, ma lontane dai bisogni popolari, specie nell’Europa meridionale e mediterranea. Ora l’Unione Europea pare in qualche modo favorevole agli Eurobond, inutilmente proposti già molti anni fa da uno schieramento politico-economico che andava da Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio fino a Giulio Tremonti. Proposte come quella di un gruppo di intellettuali vicini alla Link Campus University di Roma in materia di “coronabond”, per una ripartenza dall’Europa dei Fondatori; gli interventi annunciati dalla Banca Centrale Europea, la sospensione del Patto di Stabilità disposta dalla Commissione europea, e le dichiarazioni di ieri del Commissario all’Economia Paolo Gentiloni - secondo il quale la crisi va affrontata con strumenti messi a disposizione della Banca europea degli investimenti, con prestiti del Fondo salvastati, il MES, ma senza le rigide condizioni oggi previste; e con fondi per la disoccupazione - sono tutti elementi che fanno a ritenere che a Bruxelles ci si sia resi conto che la gravità della situazione potrebbe determinare l’implosione dell’Eurozona e della stessa Unione Europea. 

Tutto questo, benché indispensabile e urgente, potrà solo attenuare l’impatto di lungo periodo, su cui dobbiamo velocemente riflettere, e soprattutto l’impatto di breve periodo - immediato - sulla vita dei cittadini italiani. Occorre un rinnovato ruolo della politica, che deve guidare le scelte rivalutando, con capacità di discernimento, alcune proposte che pure erano state avanzate mentre il Paese era attanagliato dalla questione della austerità, imposta dal patto di stabilità che nessuno ha mai voluto considerare e attuare nel suo intero nome e in particolare nella sua seconda declinazione, cioè quella della crescita. 

Una di queste proposte, in tema fiscale, fu lanciata sul quotidiano Il Messaggero da Osvaldo De Paolini e Angelo Ciancarella, e ci sentiamo oggi di riprenderla perché le grandi intenzioni vanno bene e sono necessarie, ma le famiglie e le imprese vanno aiutate concretamente, subito. Porre ora, apertamente, la questione fiscale può apparire come una provocazione, ma è nostro compito suggerire alla politica cosa fare: deve uscire subito dal falso dualismo tra crescita e rigore, fra equità fiscale e lotta all’evasione, e attenuare il prelievo facendo emergere nuova base imponibile. Subito e contemporaneamente, non dopo. Ché, altrimenti, sarebbero ben pochi a sopravvivere, incluso lo Stato. Dobbiamo approfittare di questo momento di crisi per rivedere il nostro sistema. È giusto accogliere la proposta di Matteo Salvini: un anno di pace fiscale, bloccando ogni iniziativa della Agenzia delle Entrate e della Agenzia per la Riscossione - compresi i pignoramenti presso le Banche, anche già in essere - ponendo fine alle astruse circolari interpretative emesse perfino in questi giorni. L’Agenzia è uno strumento operativo del Governo, e fa capo al ministero dell’Economia: non può adottare scelte politiche, dando la sensazione di non aver ancora compreso cosa stia succedendo nel Paese e, soprattutto, cosa succederà ancora.

Nel contempo, il Governo deve studiare velocemente il tema, uscendo da pregiudizi di ordine culturale e ideologico. Si obietterà che in Italia non ci sono i soldi per fare una operazione di questo genere e che il problema delle tasse alte deriva da una grossa evasione fiscale. Cerchiamo di uscire da questo dualismo, che parte da un presupposto sbagliato: da una parte ci sarebbero gli evasori, dall’altra i contribuenti onesti, che pagano le tasse con una pressione fiscale complessiva superiore al 50% dei ricavi

I due fenomeni sono connessi. E sempre più lo saranno quando le imprese e le famiglie si dovranno confrontare con gli effetti, molto pratici, del Coronavirus sull’economia. Se per ipotesi tutti pagassero per intero il dovuto, con l’attuale pressione fiscale molti non sopravviverebbero; non tanto fino alla promessa redistribuzione della ricchezza - ove e quando ci fosse - ma nemmeno ai prossimi mesi, ancorché le scadenze venissero temporaneamente differite. L’economia si avviterebbe e il Pil crollerebbe. Gli evasori totali - in verità - sono poche decine di migliaia. La zona grigia in cui operano confina e in buona parte si sovrappone a quella della criminalità organizzata. Grande rilievo ha semmai il fenomeno dell’elusione, che riguarda l’abuso delle norme esistenti, al fine di conseguire un risparmio fiscale. Ma questo avviene in maniera tutt’altro che occulta e, dopo le numerose restrizioni degli ultimi anni, riguarda soprattutto i grandi contribuenti. Per il resto, e sia pure semplificando, si può dire che milioni di produttori-contribuenti adottano un mix di evasione ed elusione per costruire la propria “aliquota di sopravvivenza”, oltre la quale l’attività non sarebbe più in equilibrio economico o il reddito diverrebbe insufficiente. E poiché studi autorevoli dimostrano che la quota di sommerso aumenta in presenza di manovre fiscali pesanti, pensiamo a cosa potrebbe succedere se non si intervenisse in maniera rapida per rendere possibile a famiglie e imprese di tornare al più presto a vivere, lavorare e produrre. 

Approfittiamo dunque di questa dolorosa occasione per fare quello che tanti, e di tutte le forze politiche, hanno sempre promesso e mai realizzato. Una crescita importante del debito pubblico sarà comunque inevitabile e necessaria, ma almeno rimettiamo in moto la produzione e i consumi: abbassiamo le tasse, e riflettiamo su nuove linee di politica industriale e di crescita in grado di far ripartire il Paese. Una crescita reale, basata sul lavoro e sulle risorse umane, non su operazioni finanziarie che, al massimo, fanno decollare i patrimoni e i dividendi di poche holding, di titolari di pubbliche concessioni e di scaltri investitori internazionali, ben protetti dallo “scudo umano” dei fondi pensione.

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