Economia
Ex Ilva, dalla Italsider ai Riva fino agli azeri di Baku Steel e gli indiani di Jindal: la tormentata storia dell’acciaieria di Taranto
Dalla nascita nel 1905 al polo di Taranto negli anni Sessanta, dall’era dei Riva al sequestro del 2012, fino al passaggio ad ArcelorMittal e al ritorno dello Stato con Acciaierie d’Italia

Ex Ilva, la tormentata storia dell’acciaieria, dallo Stato ai Riva fino a Mittal
Il futuro dell’ex Ilva passa anche da Nuova Delhi. Tra le manifestazioni di interesse per la maxi-gara rilancio, infatti, figura il nome di Jindal, colosso indiano dell’acciaio pronto a investire su Taranto. Un ritorno sulla scena per gli indiani, che già ci avevano provato un anno fa senza successo.
Ci riusciranno stavolta? Molto dipenderà dalle garanzie che si riusciranno a mettere sul tavolo. "Mi aspetto progetti competitivi e sfidanti" ha ribadito di recente il ministro delle Imprese Adolfo Urso, ricordando che il bando aggiornato impone un impegno concreto sulla decarbonizzazione, con la realizzazione di almeno tre forni elettrici a Taranto per garantire continuità produttiva.
Insomma per ora questo è il presente, incerto e cruciale, dell’ex Ilva. Ma per capire come si sia arrivati fin qui bisogna ripercorrere oltre un secolo di storia, tra inchieste giudiziarie, cambi di gestione e tentativi di rilancio.
Le origini
L’Ilva nasce nel 1905 a Genova, dal matrimonio di diverse società siderurgiche. Il nome richiama l’isola d’Elba, antica terra di miniere di ferro. Per decenni la produzione si concentra al Nord, ma già nel secondo dopoguerra si ragiona su un grande polo siderurgico nel Mezzogiorno.
Negli anni Sessanta, lo Stato, attraverso l’IRI e Italsider, realizza lo stabilimento di Taranto. Una scelta politica e industriale di portata storica: dare lavoro e sviluppo al Sud e consolidare l’autonomia dell’Italia nell’acciaio. Con i suoi altiforni, Taranto diventa il più grande complesso siderurgico d’Europa, motore di occupazione ma anche massiccia fonte di inquinamento che segnerà profondamente il territorio.
La famiglia Riva
Nel 1995 lo stabilimento passa di mano. Lo Stato privatizza e a vincere è il Gruppo Riva, guidato da Emilio Riva, imprenditore lombardo che aveva costruito un impero siderurgico tra Italia ed Europa. L’operazione viene vista come un rilancio: produzione ai massimi, con Taranto cuore dell’acciaio italiano.
Ma in poco tempo emergono già le prime importanti criticità. Le associazioni ambientaliste denunciano emissioni fuori controllo e carenze negli investimenti per la sicurezza. Il rapporto con la città si logora, mentre crescono i dati su malattie respiratorie e tumori.
Il terremoto giudiziario del 2012
La svolta arriva il 26 luglio 2012, quando la magistratura tarantina dispone il sequestro dell’area a caldo dell’Ilva. Le accuse sono pesantissime: disastro ambientale e sanitario, con l’impianto indicato come responsabile di contaminazioni da diossine e polveri sottili.
Per Taranto è uno choc. Da un lato gli operai e le famiglie che difendono il lavoro, dall’altro i cittadini che chiedono la chiusura di un impianto ritenuto mortale. Le immagini delle manifestazioni in piazza e degli stabilimenti presidiati faranno il giro del Paese.
I processi ai Riva
Fabio e Nicola Riva, figli di Emilio, finiscono al centro delle inchieste. Sono accusati di aver gestito l’impianto privilegiando i profitti a scapito della salute pubblica. Nel 2021 arriva una condanna di primo grado: 22 anni per Fabio, 20 per Nicola. Ma la vicenda non si chiude lì. Nel 2024 la Corte d’appello ordina un nuovo processo, riaprendo un capitolo giudiziario ancora oggi irrisolto.
L’intermezzo ArcelorMittal
Dopo il sequestro e gli anni di commissariamento, nel 2018 il governo affida lo stabilimento ad ArcelorMittal, colosso franco-indiano. L’accordo prevede investimenti e un piano ambientale. Ma ben presto emergono le prime frizioni sullo scudo penale che doveva proteggere i manager dalle cause, sugli obblighi di spesa, sulla redditività di un impianto in difficoltà.
Nel 2019 ArcelorMittal annuncia l’uscita dall’accordo. Scoppia un contenzioso con lo Stato italiano che si concluderà con il ritiro del gruppo e il ritorno alla gestione pubblica.
Acciaierie d’Italia e il ritorno dello Stato
Nel 2020 nasce Acciaierie d’Italia (ADI), società a partecipazione statale che rileva gli impianti ex Ilva. L’obiettivo è garantire continuità produttiva e occupazionale. Ma i problemi rimangono, sono ancora lì, e parliamo di costi energetici altissimi, debiti con i fornitori, impianti obsoleti e la spada di Damocle della riconversione ambientale.
Le manifestazioni di interesse
Nel 2024 il governo riapre la partita con un bando internazionale. Arrivano manifestazioni di interesse da tutto il mondo: Baku Steel dall’Azerbaijan, Jindal dall’India, Metinvest dall’Ucraina, Vulcan Green Steel dall’Oman, fino a gruppi italiani come Arvedi e Marcegaglia.
A inizio 2025 la trattativa sembra essere quasi chiusa: l’esecutivo avvia diversi dialoghi in esclusiva con il consorzio azero guidato da Baku Steel, ma finisce presto in un nulla di fatto. Intanto lo Stato continua a iniettare risorse pubbliche per tenere in piedi l’impianto.
Oggi la partita si gioca tra i colossi globali dell’acciaio e un governo che vuole legare il rilancio alla transizione verde. Sul futuro pesa la sfida della decarbonizzazione: almeno tre forni elettrici a Taranto, riduzione drastica delle emissioni e un piano credibile per coniugare lavoro, salute e competitività. Fino ad ora c'è solo una certezza: quello di Taranto non è solo un impianto industriale, è un simbolo nazionale che continua a dividere e a interrogare il Paese.