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Economia
2015, l'anno della ripresa di cartapesta

 

Di Filippo Astone


Il Centro Studi di Confindustria ha recentemente rivisto al rialzo le previsioni rilasciate lo scorso dicembre - e già molto buone - sull'andamento del 2015, che dovrebbe essere finalmente l'anno della ripresa. Ora l'aspettativa è di una crescita del pil pari all'2,1% nel 2015 e addirittura al 2,15% nel 2016. Siamo ancora lontani dal recupero dei livelli pre-crisi (nel 2014 il pil pro-capite è sceso del 12,3% reale dal 2007, tornando ai livelli del 1997)  ma sono comunque numeri buoni. Non ci saranno posti di lavoro in più, ma almeno il tasso di disoccupazione si stabilizzerà. Nel 2014, infatti, il tasso di disoccupazione è stato del 12,7%: nel 2015 è atteso crescere al 12,9%, per poi calare al 12,6% nel 2016 e diminuire sensibilmente a partire dal 2017.  Il problema è che si tratta, come vedremo meglio più avanti, di una ripresa effimera, perché provocata da fattori esterni e non da un miglioramento della competitività del Paese e delle sue aziende. Non c'entrano niente le riforme di Renzi o le scelte strategiche o di investimento delle imprese italiane. Sarà solo un gigantesco colpo di fortuna destinato a durare un paio d'anni, al termine dei quali tutto potrebbe tornare come prima, o peggiorare.

Una manna dal cielo senza meriti di nessuno. La crescita del pil sarà provocata da una somma di fattori esterni, che dovrebbero durare una stagione ma che sono destinati a decadere. La ripresa sarà causata da fattori internazionali (calo del prezzo del petrolio, euro debole, incremento dei commerci) e dall'andamento dell'economia mondiale (+ 4% tra il 2015 e il 2017). In pratica, un clamoroso colpo di fortuna ci impedirà di declinare ancora di più, e ci farà riemergere un pochino, ma solo un pochino. E che permetterà al governo di Matteo Renzi di vantarne il merito, conquistando, forse, ulteriore consenso.

E' l'economia mondiale che muove quel poco che si può. Non c'è solo la già citata crescita dell'economia mondiale del 4% nei prossimi tre anni che farà bene anche all'Italia. Nel biennio 2015-2016 il centro studi di Confindustria prevede ben cinque situazioni contemporaneamente favorevoli all'economia italiana, e quindi al lavoro: il crollo del prezzo del petrolio; la svalutazione dell'euro; gli scambi mondiali in accelerazione; la diminuzione dei tassi di interesse; la politica di bilancio europea più favorevole alla crescita. L'elemento più importante è il petrolio. A fine 2014, il prezzo del barile è sceso di oltre un terzo in poche settimane e secondo tutti gli osservatori si stabilizzerà su valori più bassi ancora per moltissimo tempo. Merito dello shale gas americano che, facendo concorrenza ad arabi e russi, li spinge a far scendere i prezzi. E merito  anche delle scelte strategiche di alcuni Paesi produttori, soprattutto arabi, che sarebbe troppo lungo spiegare qui. Il calo del barile rappresenta un enorme vantaggio per le nostre aziende (l'Italia è il secondo Paese manifatturiero d'Europa dopo la Germania, con una forte presenza di imprese energivore) che quindi potranno spendere meno, fare più utili, vendere prodotti più competitivi in virtù del loro prezzo più basso. Il greggio più a buon mercato nel 2015 comporterà minori esborsi per le aziende italiane pari a 14 miliardi di euro, un vantaggio superiore a quello che qualsiasi manovra economica potrebbe erogare. Altro elemento importante è la crescita del commercio mondiale, che è già aumentato del 2,7% nel 2013 e del 3,2% nel 2014. Nel 2015 aumenterò del 4,4% e nel 2016 addirittura del 4,5%. Una crescita che aiuta molto le aziende italiane, le migliori delle quali sono esportatrici. Terzo fattore, il cambio euro/dollaro, che nel 2014 è sceso a 1,2 euro per un dollaro, e secondo quasi tutte le previsioni nel 2015-2016 potrebbe calare ancora, rendendo i prezzi dei beni venduti all'estero ancora più competitivi.

Che cosa ci vorrebbe: una politica industriale. Anche se resteremo a galla, insomma, la fine del declino non si intravede nemmeno lontanamente. L'Italia, insieme alla Spagna e alla Grecia, è l'unico Paese europeo che non ha recuperato i livelli pre-crisi e non sembra nemmeno volerci provare.  Spende in ricerca e sviluppo appena l'1% del pil, mentre la media dei Paesi europei avanzati investe il 3%. Tutto il contrario degli Stati Uniti di Barack Obama, che grazie alla sua ricetta economica si stanno risvegliando alla grande: il loro pil è cresciuto dell'1,9% nel 2013 e del 2,3% nel 2014. In futuro è prevista una ulteriore crescita del 3,2% nel 2015 e del 2,9% nel 2016. Si fa fatica a vedere (anzi a immaginare) un futuro, un cambiamento di passo, una svolta, una speranza.  I Paesi che hanno progredito (Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna e, in qualche misura, anche la Francia) in maniera strutturale, aumentando la loro competitività:  hanno tutti seguito una ricetta basata su una chiara visione del futuro; forti investimenti in istruzione; ricerca e sviluppo; significativa presenza dello Stato pur senza alterare la concorrenza, politica industriale per rafforzare la manifattura. Si è lavorato su distretti industriali geograficamente localizzati, con una forte collaborazione con le università. In questi luoghi, sostanzialmente le università, generosamente finanziate dallo Stato, fanno ricerca di base che mettono a disposizione delle aziende del luogo, spesso organizzate con grandi imprese intorno alle quale ruotano piccole e medie e tante start-up. Tutto ciò si chiama politica industriale, e non ha nulla a che fare con il vecchio dirigismo economico e col capitalismo di Stato. Ha invece molto a che fare con lo sviluppo e la modernità.

Senza le fabbriche c'è solo povertà. La ripresa economica trainata dal miglioramento dell'economia globale e da vari fattori esterni favorevoli, potrebbe essere un'eccellente occasione per rafforzare il manifatturiero italiano, che vanta eccellenze mondiali. In tutti i Paesi moderni e in crescita, non a caso, ci sono sforzi di politica industriale finalizzata al rafforzamento delle fabbriche. Solo il manifatturiero - soprattutto se di qualità - può essere il motore principale di una crescita economica sostenibile, in virtù dell'innovazione tecnologica che esso crea e alimenta, e che dalle fabbriche si irradia al resto del sistema Paese. Un'azienda manifatturiera non è fatta solo di macchine. È un sistema cognitivo distribuito, che aumenta ancora di più la sua complessità (e quindi la sua capacità di creare valore economico e sociale) se ruota attorno a tecnologie avanzate. Il gigantesco patrimonio di conoscenza implicita ed esplicita che forma questo sistema cognitivo risiede nella memoria delle persone che ci lavorano (padroni, manager, operai, impiegati, fornitori) in misura uguale, o spesso anche maggiore, dei file che sono depositati in vari computer. Uno dei principali problemi dell'Italia è un 25% di capacità produttiva che è rimasto inutilizzato. Prima della crisi il manifatturiero pesava per il 21% circa del nostro pil, adesso pesa per il 16%. In altre parole, le nostre fabbriche potrebbero facilmente produrre e vendere un quarto dei manufatti in più, ma non lo fanno perché mancano clienti. Solo una politica industriale modellata sulle esperienze di successo fatte all'estero può risolvere questo problema e dare slancio al Paese.
La competitività dipende dall'innovazione, non dal basso costo del lavoro. Oggi, la competitività - ossia il continuare a esistere - di un Paese dipende solo dalla sua capacità di intercettare i cambiamenti in atto. E soprattutto da quanto le sue industrie riescono a innovare. Il manifatturiero è vitale ovunque. Ma lo è particolarmente in Italia, Paese trasformatore da sempre, visto che ha pochissime materie prime e che ne compra abbondantemente dall'estero. Se non rivende all'estero le materie prime trasformate, l'Italia muore. Ecco perché non è più accettabile l'immobilismo della politica italiana sulle scelte strategiche. Ecco perché urge una forte politica industriale.

Renzi: riforme di cartapesta, solo per acquisire consenso. Ma il governo di Matteo Renzi non ha fatto niente di tutto questo. Anche perché, in realtà, una vera politica industriale non la vuole affatto. E' convinto che basti lasciare mano libera alle imprese e poi le cose si risolveranno da sole. Renzi ha solennemente promesso di risolvere il problema dei debiti della pubblica amministrazione con le aziende private, ma nei fatti ha si è adoperato pochissimo per farlo. Il decreto Sblocca Italia ha sbloccato poco o niente. Renzi e i suoi consiglieri economici (in primis Filippo Taddei) sono ancora convinti assertori di una impostazione pseudo neoliberista, basata sull'idea che lo Stato  debba solo arretrare, ridurre la sua presenza e che le imprese, lasciate libere, possano dare il meglio di sé. I suoi interventi economici sostanziali si possono ricondurre a tre filoni: gli 80 euro di aumento retributivo/sconto fiscale dato solo a una certa categoria di dipendenti (spendendo 10,5 miliardi di euro all'anno, che se fossero stati investiti in ricerca e sviluppo avrebbero potuto dare una scossa strutturale significativa); gli sgravi per le assunzioni; il Jobs Act che di fatto abolisce l'articolo 18 e concede una totale libertà in temi di licenziamenti individuali. Anche se Marchionne, in modo tronfio, dice che grazie al Jobs Act farà 1500 assunzioni (e vista la facilità con la quale smentisce i suoi annunci, è legittimo qualche dubbio), in realtà queste "riforme" non spostano niente. Le "riforme" (e le virgolette sono d'obbligo) spostano solo il consenso a favore di Renzi, facendo credere ad alcune categorie sociali di venire incontro ai loro desiderata.  Con la libertà di licenziare, il presidente del Consiglio obbedisce all'Europa (che in realtà chiede la flessibilità del mercato del lavoro nell'ambito di un sistema di ammortizzatori sociali efficaci, che è tuttaltra cosa) e conquista il consenso di pancia dei piccoli imprenditori che godono di questa libertà teorica. Con gli 80 euro (che in realtà non hanno fatto crescere i consumi, e quindi l'economia, nemmeno di mezzo punto percentuale) Renzi fa credere alla classe medio-bassa di aiutarla. Con il Jobs Act, Renzi fa credere a masse di lavoratori precari (che in realtà resteranno precari, anche perché cocopro, cococo e partite iva monocliente non sono state abolite) di dar loro un po' più di stabilità, rendendo possibile un finto contratto a tempo indeterminato. Il "contratto a tutele crescenti", in realtà non offre nessuna tutela crescente, ma solo un modesto idennizzo monetario, che, certo, aumenta un pò nel tempo in relazione all'anzianità di servizio del lavoratore, ma nei fatti non tutela nulla e nessuno. La libertà di licenziare, anzi, potrebbe far diminuire il numero di lavoratori effettivamente occupati. Peraltro, in Italia, la facilità di fare licenziamenti collettivi per motivi economici c'era già. Bastava (e basta) proclamare uno stato di crisi (che si può fare anche con i bilanci in attivo, è sufficiente proclamare la necessità di una ristrutturazione per accrescere la competività) e iniziare una trattativa sindacale per la messa in mobilità, o in cassa integrazione, di un certo numero di lavoratori. In questi anni l'hanno fatto migliaia di gruppi aziendali di tutte le dimensioni.

Nessun nuovo posto di lavoro. Tutto il gioco del Jobs Act e degli incentivi, purtroppo, non crea nessun nuovo posto di lavoro. Le aziende, infatti, assumono nuovi lavoratori "veri" non se questi costano di meno, ma se hanno del nuovo lavoro da far svolgere loro. E il lavoro si crea con nuovi prodotti (resi possibili, non ci stancheremo mai di ricordarlo, soprattutto da significativi investimenti pubblici e privati in istruzione, ricerca e sviluppo) e nuovi mercati. Senza questo, le assunzioni fatte col Jobs Act saranno le stesse assunzioni che ci sarebbero comunque state (o i posti di lavoro che già ci sono) ma vestite diversamente, e con zero tutele reali. Purtroppo, il governo di Renzi non ha fatto assolutamente niente per supportare le imprese nel lancio di nuovi prodotti e nella creazione di nuovi mercati. Ha solo agito per diminuire il valore reale dei salari nel medio e lungo periodo e per facilitare i licenziamenti individuali.

Le "riforme" potrebbero persino accelerare il declino. Sul medio-lungo periodo, poi, la possibilità di facili licenziamenti individuali farà scemare notevolmente il potere dei sindacati nell'ambito delle trattive contrattuali, e quindi farà diminuire il valore reale dei salari. A questo va aggiunta la preferenza accordata ai contratti aziendali a discapito di quelli nazionali. I contratti nazionali di lavoro - pochi forse lo ricordano - servono a tutelare la quota di profitti destinata agli stipendi rispetto a quella destinata agli utili. Riducendo il loro peso, si riduce anche il valore degli stipendi. Il sospetto (forse la certezza) è che si voglia trasformare l'Italia in un Paese che compete non grazie al valore aggiunto dei suoi prodotti di qualità, ma con il costo del lavoro più basso. Il rischio è di diventare, fra qualche anno, un gigantesco museo dell'arte e della gastronomia. Nemmeno gestito troppo bene.
 

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