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Economia
PopBari/ Mutui, calcio, editoria e affari: parabola discendente degli Jacobini

Tre generazioni: il padre Luigi, il fondatore nel 1960, il figlio Marco, presidente esecutivo che ha fatto un passo indietro solo a luglio di quest’anno, dopo 30 anni al timone della banca e poi i figli Gianluca, condirettore generale e Luigi, vicedirettore generale. La Popolare di Bari è la famiglia Jacobini, un unicum fino alla gestione commissariale appena scattata che porterà l’istituto sotto l’alveo di Invitalia attraverso il Mediocredito Centrale, l’ultima banca familiare che, grazie alla formula dell’istituto popolare, ha saputo resistere all’epocale passaggio del mondo del credito dalla foresta pietrificata al consolidamento delle banche universali e alla digitalizzazione.

Dal marzo del 1960, quando cioè dopo una lunga gestazione (i primi progetti sono del 1945), il ragioniere poi dottore in Scienze Economiche e Commerciali di Fagnano Castello (Cosenza) Luigi Jacobini si mise alla testa di un gruppo di imprenditori e professionisti locali per fondare la banca, dalla Popolare di Bari, la più grande banca del Sud con i suoi 70mila soci e 3.200 dipendenti (in 350 sportelli), la famiglia ha legato a sè i destini del capoluogo pugliese

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Dai mutui agli abitanti per acquistare la prima casa fino ai fidi agli imprenditori locali (uno su tutti le famiglie Fusillo e Curci), alla squadra di calcio ai quali sono sempre stati molto vicini nell'era Matarrese e Paparesta, prima di arrivare al fallimento disastroso e alla Gazzetta del Mezzogiorno, il gigante dell'editoria in grande difficoltà. Una città che forse, alla luce di quanto rivela oggi Repubblica, dagli Jacobini è stata tradita, perché mentre rastrellava i risparmi di una vita ai piccoli investitori-correntisti e la Banca d’Italia mandava i primi ispettori imponendo uno stop all’espansione territoriale ed evidenziando carenze di governance e di controlli adeguati sui crediti, attività che avevano gettato le basi per il futuro crack, il consiglio di amministrazione guidato da Jacobini si alzava i propri emolumenti. Triplicandoli, oltre un milione e 400 mila euro, per tutto il board. In modo da render tutti contenti coloro i quali sedevano nella stanza dei bottoni della banca.

Il patriarca e presidente Marco Jacobini, scrive infatti Repubblica, “nonostante la Banca d’Italia avesse invitato a contenere il compenso entro i livelli assegnati in precedenza, 200 mila euro circa - hanno fatto sapere i report degli ispettori - si è visto riconoscere dal consiglio una retribuzione annua di 600 mila euro”.

Poi la disastrosa operazione Tercas del 2014 con il coinvolgimento della popolare barese nell'operazione di acquisizione del gruppo che si configura come un intervento di salvataggio del gruppo abruzzese a cui è legata una ricapitalizzazione da 550 milioni (330 milioni nuove azioni e 220 milioni bond subordinati) e le nuove ispezioni su operazioni baciate e le vendite copiose di azioni del 2016 da parte dei piccoli soci che si vedono ridurre il valore del proprio investimento, prima di fiducia. 

Infine, lo scontro all'inizio di quest’anno, mentre si moltiplicavano le cause civili dei risparmiatori per le azioni acquistate e nel frattempo diventate carta straccia, tra l'ex presidente ed altri esponenti della famiglia da un lato e il direttore generale da lui scelto poco tempo prima, Vincenzo De Bustis, e il presidente del Collegio sindacale dall’altro. E il passo “di lato”, ironizza qualche commentatore, di Jacobini a luglio di quest’anno che lascia la presidenza a un nipote della famiglia che da sempre guida l'istituto di credito più importante della città, il professor Gianvito Giannelli, figlio della sorella di Marco, Annamaria. L'ultimo capitolo di una vicenda locale da dimenticare.

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