Portafoglio/La crisi russa si avvicina al suo epilogo, ecco le mosse per non rischiare più del dovuto
Era sembrato stamane che la mossa a sorpresa con cui la banca centrale russa ha alzato dal 10,5% al 17% i tassi di interesse ufficiali (il rialzo più forte mai registrato dal 1998, quando i tassi erano stati raddoppiati, poco prima che la Russia dichiarasse default sul debito), fosse riuscita a interrompere la sequenza di sei sedute consecutive al ribasso, ma è durata poco perché il timore che il Cremlino possa reintrodurre limiti ai movimenti di capitale e ai cambi ha fatto scattare una nuova corsa a vendere rubli da parte degli investitori russi tanto che il cambio rublo/dollaro ha toccato quota 78,7 prima di tornare appena sotto il livello di 72,4, livelli che non si vedevano da decenni (solo tre mesi fa il cambio oscillava sotto quota 40, un anno fa di questi tempi era addirittura sotto quota 33), con una perdita di valore su base giornaliera che non si registrava da 16 anni.
La mossa di stamane e la violenta reazione dei mercati (la borsa di Mosca sta cedendo il 14%, poco sopra minimi giornalieri a -19%, oscillando a 615 punti, il 48% in meno di 3 mesi or sono) testimoniano come ormai la situazione per Mosca, stretta tra le sanzioni economiche occidentali e la guerra di prezzo innescata sul petrolio dell’Opec, sia disperata e il rischio di un default o di una profonda recessione stia facendo fuggire rapidamente i capitali. Per questo il premier russo, Dmitry Medvedev, ha già indetto una riunione d’urgenza del suo governo per discutere della crisi finanziaria e potrebbe annunciare nelle prossime ore restrizioni sui cambi secondo quanto hanno avvisato in alcuni alert analisti di case d’investimento come Schroder Investment Management e Skandinaviska Enskilda Banken.
La situazione sta ovviamente causando delle scosse di assestamento anche su tutti gli altri mercati finanziari mondiali, aumentando ulteriormente una volatilità salita già da qualche settimana a causa del riaccendersi del “rischio Grecia”, delle incertezze circa la tenuta della crescita in Cina e in Giappone e della previsione di un avvio della “normalizzazione” della politica monetaria della Federal Reserve dal prossimo anno, con un primo rialzo dei tassi ufficiali sul dollaro previsto finora per il prossimo maggio-giugno. Ma una crisi russa potrebbe rimettere tutto in discussione. Anzitutto occorrerà vedere se le probabili restrizioni ai movimenti di capitali che saranno adottate nelle prossime ore serviranno a ridare fiato alla Russia o non accentueranno ulteriormente l’avversione al rischio degli investitori.
Il rischio di una nuova fuoriuscita di capitali da tutti i mercati emergenti (azionari ed obbligazionari) e dai titoli a reddito fisso percepiti come maggiormente a rischio (dalle emissioni corporate a quella di paesi come Italia o Spagna, o persino Francia, che debbono ancora finire di mettere in ordine i propri conti pubblici e che presentano un andamento macroeconomico più o meno incerto) è elevato, anche se non è detto che la tempesta duri a lungo. Molto dipenderà anche dal persistere o meno della guerra di prezzi innescata dall’Opec con i produttori di shale oil statunitensi che per molti raggiunge anche l’obiettivo comune (non dichiarabile pubblicamente) di mettere fuori gioco Mosca e i suoi alleati tradizionali nel Golfo Persico come l’Iran, non a caso paesi che perdono soldi se non riescono a vendere il proprio petrolio a prezzi pari o superiori ai 100 dollari al barile.
In ogni caso, mentre non sembra il caso di farsi prendere dal panico (tant’è che dopo qualche sbandata iniziale Milano sta chiudendo la giornata in rialzo dell’1,5%, mentre Wall Street e le principali borse europee oscillano poco sopra la chiusura di ieri), è probabile che ci si possa scordare per quest’anno il consueto “rally natalizio” dei mercati azionari e che lo spread tra i rendimenti dei Btp e dei Bund torni a salire (stasera è poco sopra l’1,45%) almeno fino a che, il 22 gennaio prossimo, la Bce non farà sapere se darà via ad un piano di acquisto di titoli di stato sul mercato (“quantitative easing”), atteso da mesi ma da mesi continuamente rinviato per l’opposizione sinora feroce della Germania.
Dall’altra parte dell’oceano Atlantico il dollaro pare destinato a rafforzarsi ulteriormente, sostenuto dai flussi di capitali in cerca di un “porto sicuro”, mentre gli stessi T-bond potrebbero recuperare nuovamente terreno. La Federal Reserve potrebbe così trovare una valida scusa per rinviare il rialzo dei tassi sul biglietto verde, facendolo magari slittareall’autunno o a inizio 2016 e dando fiato alla ripresa economica negli Usa e, indirettamente, in Europa ed Asia. Alla fine la migliore opzione potrebbe essere quella di ridurre l’esposizione nei confronti dei mercati emergenti ed in particolare della Russia (se si possedessero fondi comuni o Etf indicizzati a tali mercati, o azioni di gruppi come la banca austriaca Raiffeisen International, già finita sotto inchiesta per aver aiutato a collocare un bond di una società russa colpita dalle sanzioni occidentali), mantenersi lontani dai titoli del settore petrolifero e non troppo esposti sui titoli finanziari, specie europei.
Per il resto si potrebbe invece continuare a mantenere un’esposizione azionaria leggermente maggiore sugli Stati Uniti (da riequilibrare gradualmente a favore dell’Europa approfittando di eventuali forti sovraperformance di Wall Street o di giornate particolarmente negative delle borse del vecchio continente) ed una corrispondente sottoesposizione sul Giappone, dove Abe deve ancora dimostrare di essere in grado di far ripartire l’economia dopo mesi di continue promesse, puntualmente disattese dai dati a consuntivo. In campo obbligazionario mantenersi sull’area a 3-5 anni in titoli italiani o spagnoli non dovrebbe dare troppi problemi, consentendo di guadagnare qualcosa di più che non in T-bond, Bund o in titoli francesi o inglesi.
Luca Spoldi