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Economia

Di Nicolò Boggian

In questi giorni l’ennesimo smottamento dei Pil nazionale (-2,4% su base annua, un calo che si registra per il 7° trimestre consecutivo) dimostra quanto la politica, il nostro Governo e una parte del Paese non riescano a rinnovarsi per adattarsi ai cambiamenti imposti, rispettivamente, dall’Ue, dalla globalizzazione e soprattutto dal buonsenso.
La Bce ha rispedito al mittente le ipotesi di allentamento relative alle misure di rigore in bilancio imposte dall’Unione Europea e questo sembra aver fermato sul nascere le idee di quanti ipotizzavano di far ripartire la crescita emettendo nuovo debito.
A conti fatti, si riapre quindi il dibattito empirico circa l’uscita dall’Euro, anche se nei recenti sondaggi sono più di 2/3 gli italiani che sembrano respingere questa possibilità, infatti, i cittadini del Bel Paese sembrano aver ben compreso come tale eventualità possa comportare un impoverimento complessivo e altri problemi.
Anche chi è critico nei confronti delle misure impiegate dall’Unione Europea non può non riconoscere come la competizione tra Stati, imposta dalla stessa mediante regole finanziarie, economiche e industriali uguali per tutti, sia da ritenersi corretta, al di là di parametri specifici adottati per i mercati più poveri o per i Paesi in difficoltà.

Questa competizione tra Stati membri non solo è giusta, ma è anche uno strumento utile per meglio destreggiarsi nei pericoli e tra le opportunità della globalizzazione e, se usata bene, volge principalmente a vantaggio dei cittadini e delle imprese.
Uno stato più efficiente è, infatti, un vantaggio principalmente per i cittadini.
Tuttavia il nostro Stato e chi lo governa semplicemente stenta a comprendere che cittadini, capitali e imprese possano ormai scegliere dove andare, ignorando che per trattenere talenti, ricchezza e Pil servono fiducia, cooperazione, efficienza, innovazione, infrastrutture, poche regole certe e costi prevedibili.
Una volta garantiti questi servizi e condizioni allora si può pensare ad altre forme d’imposizione fiscale o a strumenti di finanziamento alternativi.
Lo Stato centrale, ammesso che così si possa chiamare, invece fatica a ottenere questa disciplina dalle singole parti del proprio corpo (Amministrazioni, Sistema Sanitario, Enti, Società partecipate e autorità garanti, per citarne alcune) dove si continua un “tutti contro di tutti”, mentre in parallelo si combatte per tutelare la propria posizione personale anziché rispondere concretamente ai bisogni del cittadino.
Continuano a prevalere quindi i soliti formalismi burocratici e abitudini di maniera che tutelano alcuni senza pensare veramente alla collettività, in una continua caccia all’ultimo finanziamento e all’ultimo posto di lavoro.
Un’ampia fetta della classe manageriale dell’industria e della finanza italiana continua non solo nella difesa dell’esistente, ma pensa anche di utilizzare ampie parti della struttura economica esistente per progettare lo sviluppo nel futuro.

Quest’idea mi sembra poco produttiva per la realizzazione concreta dei progetti, oltre che poco giusta.
Ci siamo scordati gli sprechi e le inefficienze dello Stato imprenditore? Non sarebbe meglio utilizzare le risorse per iniziative rivoluzionarie e per offrire a una nuova leva d’imprenditori, manager e professionisti la possibilità di cimentarsi con i problemi del Paese anziché la vecchia classe imprenditoriale privata?
In un Paese che non innova e in cui stentano a vedersi imprese, start up e dinamismi innovativi continua un certo atteggiamento dei leader a chiudersi in una casta autoreferenziale che soffoca lo sviluppo.
Viceversa, aspettiamo che atteggiamenti meno snob, proiezione al futuro, più fiducia e cooperazione si diffondano nella classe dirigente per generare quel ritorno alla crescita di cui abbiamo sempre più bisogno.

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