Assad, è la miccia che ha incendiato il Medio Oriente
I titoli dei giornali sono mutevoli ed è facile dimenticare che la presente iterazione della violenta confusione in Medio Oriente discende dal fallito tentativo di destabilizzare la Siria di Bashar al-Assad. Da allora - scrive James Hansen, direttore della nota diplomatica real geopolitics - ne è passato di sangue sotto i ponti. L’Isis—avendo “bucato” a Damasco—si è riposizionato da Califfato, la Russia ha dichiarato guerra semifredda all'Unione Europea e l'Arabia Saudita guerra petrolifera alla produzione americana di idrocarburi dal fracking.
Nessuna di queste iniziative sta andando come sembrava in un primo momento: l’Isis è in fase di stallo in Iraq e medita di trasferire le operazioni in Libia; la Russia si è impantanata in una troppo costosa avventura in Ucraina; il crollo dei prezzi petroliferi voluto dai sauditi non ha finora scalfito la produzione USA. I temi si incrociano e disegnano—per ironia della sorte—un reticolo di mira proprio sopra l’ampia fronte di Assad, fino ad ora protetto dai russi.
La sua testa era infatti il prezzo che Putin non era disposto a pagare a Vienna a fine novembre quando l’Opec, sotto la “guida” saudita, ha deciso di non sostenere il prezzo del greggio attraverso tagli alla produzione—un’azione fortemente caldeggiata dai russi, che non sanno come coprire i gravi buchi economici. I sauditi hanno sbagliato e hanno bisogno di una via d’uscita—se non è già troppo tardi. La Russia necessita disperatamente di vedere risalire i prezzi petroliferi, al momento retti sostanzialmente solo dal milione di barili al giorno di greggio libico che mancano all’appello. Le due parti si detestano da sempre—e probabilmente non potranno fare a meno di tentare un accordo. Due settimane fa un influente, seppure anonimo, diplomatico saudita ha dichiarato al New York Times: “Se il petrolio può servire a portare la pace alla Siria, non vedo come il mio Paese potrebbe tirarsi indietro”.
Nobile sentimento… jdh Pace siderale — Lo spazio è il regno della pace. Diversi trattati internazionali ne garantirebbero la serenità e la smilitarizzazione. Sono però accordi siglati quando era “facile” firmarli, quando fare qualsiasi cosa fuori dall’orbita terrestre era talmente difficile e costosa da non essere nei fatti praticabile. Ora siamo più bravi e forse più spaventati. Quando perfino l’India riesce a mandare una sonda su Marte, non è più possibile trascurare l’importanza della sconfinata ultima frontiera. Il Congresso americano ha introdotto un breve testo nella National Defense Authorization Act—il documento con cui dirige gli orientamenti dei militari USA—per l’anno fiscale in corso invitando perentoriamente le Forze Armate nazionali a indirizzare “la maggioranza” dei fondi messi a budget per le loro attività di ricerca extraterrestre “allo sviluppo di strategie per il controllo offensivo dello spazio e per le capacità di difesa spaziale attiva”. Non è per ora una grande somma, sull’ordine di svariate decine di milioni di dollari in una dotazione— quella per la sicurezza e la sorveglianza satellitare—che nell’insieme supera ampiamente i $27 miliardi. Sono però soldi che devono servire per pensare l’impensabile: a come portare la guerra nello spazio.