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Esteri
Festa della donna e 8 marzo, nelle zone di guerra non c'è niente da celebrare
Donne africane vittime di violenza

Il conflitto iniziato a novembre del 2020 ha visto due schieramenti, da un lato l’esercito federale, ENDF, Ethiopian National Defense Force, alleato con l’esercito eritreo, EDF, Eritrean Defence Forces, con le forze Amhara, le milizie e il gruppo Fano, dall’altro il partito il Tigray People's Liberation Front, Tplf, con il proprio esercito e diverse milizie. Va ricordato che la Costituzione dell’Etiopia (1995) stabilisce che anche durante un conflitto i colpevoli di crimini contro l’umanità e violazioni dei diritti umani debbano essere puniti. In particolar modo l’articolo 270 del Codice Penale vieta i crimini di guerra contro i civili, la riduzione alla fame, la tortura, lo spostamento obbligato di persone, lo stupro e la prostituzione forzata. Resta il fatto che, dalla notte del 3 novembre, dopo l’attacco del Tplf nella regione del Tigray, le donne vittime di violenza sono state tantissime. 

E non solo nel Tigray. Dopo il 28 giugno, quando il Tplf con il proprio esercito riprende il controllo del capoluogo Mekelle, lasciato dall’esercito federale per la tregua unilaterale, ad essere occupate militarmente saranno le regioni confinanti Amhara e Afar. E qui inizia un altro triste capitolo della guerra. Nel South Wallo, parte della regione Amhara, più di duecento donne denunceranno di aver subito  violenze sessuali da parte delle milizie Tigrine. 

“Al Tplf” spiega una donna Amhara intervistata in Italia con la protezione dell’anonimato, “è stato detto di distruggere, ammazzare, violentare. Gli esecutori sono giovani determinati che raggiungono questi tristi obiettivi anche dopo aver camminato a piedi per duecento, trecento chilometri. Sono probabilmente stanchi, affaticati, costretti a rubare per mangiare, ma niente li fa desistere dall’obbedienza agli ordini, neppure l’appartenenza religiosa cristiana è un deterrente, come mai? La spiegazione più semplice è il lavaggio del cervello sulla superiorità etnica ricevuto fin da bambini”.

Molte donne intervistate sulle violenze hanno riportato i fatti con parole simili, “ci dicevano che non eravamo umane”. Entravano nelle case, chiedevano che si cucinasse per loro, poi obbligavano i parenti a uscire e violentavano le donne. Racconti di questo genere si susseguono nelle testimonianze. “Quando il Tplf negli anni Novanta ha occupato parte dei territori un tempo appartenenti alla regione Amhara, facendoli diventare Tigray”, ricorda la stessa fonte, “il loro motto era, vogliamo la terra e le donne”.

In rete c’è la storia di Ikram, una giovane donna etiopica che non ha paura di raccontare la violenza subita. Ikram è una ragazzina che vive e va a scuola a Shawerhobbit, nella regione Amhara. Il suo mondo è stravolto quando arrivano le Forze Speciali del Tigray che occupano il territorio per quindici lunghi giorni. Da quel momento la sua vita cambia. E lei, come purtroppo molte altre, cadono preda della violenza. Ikram racconta che davanti alle loro suppliche, i soldati le guardavano chiedendo, “perché ci implorate? Pensate di essere umane? Non lo siete. Siete solo asini”. Insieme a molte altre Ikram è stata portata via dal paesino e violentata. Lei però non ha paura di mostrare il volto, di dire il suo nome. Altri, dice con fierezza, sono quelli che devono vergognarsi.

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