Israele non si fida di Abu Mazen. Iraq e Siria aggravano la crisi
La crisi scoppiata tra Israele e Hamas in seguito al ritrovamento dei corpi di tre giovani coloni e all’uccisione di un giovane palestinese non accenna a placarsi. La spirale di violenze si è rapidamente estesa dalla Cisgiordania a Gaza, dove le forze di sicurezza israeliane hanno risposto duramente al lancio di più di 200 razzi delle fazioni palestinesi più estremiste con l’operazione Protective Edge, che da lunedì a oggi ha causato 53 vittime e circa 500 feriti tra gli abitanti della Striscia. In questo contesto di violenza crescente, l’eterogeneo esecutivo di Netanyahu, alla ricerca di una linea, ha minacciato un intervento di terra a Gaza, mobilitando 40 mila riservisti. L’autorità palestinese di Abu Mazen sembra sempre più debole e marginalizzata, mentre la tensione continua a salire anche in Cisgiordania e a Gerusalemme, dove sta lentamente tornando lo spettro del terrorismo e di una nuova Intifada. Il riacuirsi della crisi israelo-palestinese ha però nuove e ancor più inquietanti incognite rispetto al passato, soprattutto perché si inserisce in un quadro regionale estremamente instabile. Lo spillover del conflitto siriano in Iraq ha accresciuto la frammentazione e la debolezza di due nemici storici di Tel Aviv: l’Iran è direttamente minacciato dalla destabilizzazione dell’Iraq, così come Hezbollah da quella della Siria. Tuttavia, il pericolo per lo stato ebraico potrebbe risiedere nelle dinamiche di lungo periodo che la rinnovata ondata jihadista risveglierebbe tanto nella regione immediatamente contigua, quanto nella stessa Cisgiordania e a Gaza.