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Esteri
Israele, la guerra non ferma il business. Sarà il contrario

Una fotografia, mentre sul territorio israeliano cadevano più di mille razzi di Hamas lanciati da Gaza, a Wall Street veniva completata l’IPO di Similar Web (deal da 1,6 miliardi di dollari), il colosso NTT apriva un nuovo hub nel paese e Google annunciava il primo moonshot lab in Israele, l’unico fuori dagli Stati Uniti.

Ne abbiamo parlato con Jonathan Pacifici, General Partner, Sixth Millennium, presidente del Jewish Economic Forum e autore del libro “Gli unicorni non prendono il corona”, che racconta come la pandemia non abbia fermato la crescita economica Israeliana.

Il paese è di fatto uscito prima degli altri dalla pandemia e rappresenta un esempio per il ritorno alla normalità, grazie a una massiccia campagna vaccinale, poi i rigurgiti di guerra improvvisi di questi giorni. Come vede la situazione dal suo osservatorio di business man che risiede Gerusalemme?

Iniziamo dalla campagna vaccinale. Non è solo un tema di quantità di vaccini disponibili. La vera lezione, che anche l’Italia dovrebbe imparare, è l’informatizzazione della sanità. In Israele siamo potuti andare a colpo sicuro da ogni singolo cittadino da vaccinare, conoscendo la sua situazione sanitaria. In Italia ho esperienze personali di pazienti che in una giornata, in una situazione di emergenza, sono stati sottoposti e quattro tac, in quattro diversi ospedali, perché non esiste un’unica banca dati e le strutture non si parlano. Quanto alle ore drammatiche che stiamo vivendo in questi giorni, ciò che ci guida e ci salva è sempre la stessa cosa: l’innovazione tecnologica, penso al sistema Iron Dome che è in grado di intercettare il 90% dei missili a corto raggio. Qualcosa che prima che venisse realizzato in Israele, sembrava impossibile, anche a paesi avanzati come gli Stati Uniti.

Ecco, si parla spesso di start-up nation ed è noto come Israele faccia ormai da traino per lo sviluppo tecnologico mondiale in diversi campi. Qual è stata la ricetta vincente?

È un mix di fattori culturali ed economici. Che poi, i due aspetti, sono profondamente interconnessi. Il nostro popolo ha una vera e propria passione per il sapere, o meglio, per la conoscenza, che ha profonde radici religiose. Su queste radici, negli ultimi venti-trent’anni si è innestato un connubio di skills, da un sistema pubblico composto di scuole - ma anche dalla Difesa - profondamente interconnesso al mondo del business a una cultura del problem solving,  del coraggio, della meritocrazia. Per noi non esistono sfide impossibili, ma problemi da risolvere, e l’esempio di Iron Dome è molto indicativo di questa caratteristica psicologico-culturale israeliana.

Si parla di accordi di Abramo messi in pericolo dagli scontri in atto. Come vede il futuro a breve e medio periodo?

Penso che un ragazzino israeliano che sogna di aprire una start-up abbia molto in comune con un suo coetaneo degli emirati arabi con lo stesso sogno. Avrei già detto tutto. Spero e penso che quelli in corso siano gli ultimi rigurgiti di un mondo antico e sorpassato dai fatti. Se i molti soldi che sono arrivati a Gaza fossero stati investiti in sviluppo, al posto che in armi, tunnel e missili, la popolazione starebbe molto meglio e oggi ci sarebbe la pace. Molti paesi arabi moderati l’hanno capito, hanno fame di sviluppo e crescita. Su questa base nascono gli accordi di Abramo, e la mia opinione è che, malgrado i tragici fatti di questi giorni, questo è il futuro. Un futuro migliore per tutti.

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