Esteri
Israele, Morelli: “Il riconoscimento dello Stato di Palestina? Un gesto più simbolico che sostanziale. Anzi, si rischia l'escalation”
L’analista geopolitico: “A livello politico e simbolico è un riconoscimento importante delle legittime aspirazioni nazionali del popolo palestinese. Ma, a livello pratico, finché non ci saranno sanzioni, non cambierà nulla”

Morelli ad Affaritaliani: “Il riconoscimento della Palestina è un gesto simbolico e privo di reali benefici”
Un passo concreto o solo di facciata quello del riconoscimento dello Stato di Palestina? A fare chiarezza è Elia Morelli, ricercatore di storia presso l’Università di Pisa, analista geopolitico e saggista, che ad Affaritaliani ha spiegato il significato di tale mossa, dal valore prevalentemente simbolico e privo di benefici reali e concreti per la Palestina e per il tragico massacro in corso a Gaza. Anzi, avverte: “con l’annessione della Cisgiordania promessa da Netanyahu il rischio è che l’escalation prosegua e si intensifichi”.
Oggi l’ONU si riunisce a New York per discutere il riconoscimento dello Stato di Palestina. Qual è il reale peso politico di questa riunione e quali esiti concreti potrebbe produrre sul piano internazionale?
“Per quanto riguarda gli esiti concreti, credo che saranno limitati. Dal punto di vista politico, però, si tratta di un passo avanti molto importante, soprattutto perché diversi Paesi - tra cui Francia, Regno Unito, Andorra, Belgio, Lussemburgo, Portogallo, ma anche Australia e Canada - stanno riconoscendo lo Stato di Palestina.
Ciò significa che oltre 150 Paesi, quindi la grande maggioranza della cosiddetta “comunità internazionale”, ne riconosce ormai l’esistenza. In sostanza, il dato è questo: tutto il mondo, ad eccezione dell’Occidente allargato, riconosce lo Stato palestinese. Se escludiamo Germania, Italia, Stati Uniti, buona parte dei Paesi europei, Giappone e Corea del Sud, il resto del mondo ha già preso posizione in favore del riconoscimento.
Tuttavia, dal punto di vista concreto, è evidente che questo riconoscimento dovrebbe accompagnarsi a un posizionamento più deciso nei confronti di Israele, in merito alla campagna militare che l’esercito israeliano sta conducendo nella Striscia di Gaza. Perché se da un lato si riconosce formalmente lo Stato palestinese, dall’altro questo riconoscimento potrebbe paradossalmente incentivare Israele a proseguire la propria offensiva. L’obiettivo ultimo di Tel Aviv è chiaramente quello di appropriarsi non solo della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, ma anche di alcuni territori tra Libano e Siria, ampliando ulteriormente i propri confini”.
Netanyahu ha ribadito l’intenzione di annettere la Cisgiordania. Cosa significherebbe, in termini pratici e geopolitici, una mossa del genere?
“In termini pratici, significherebbe che Israele intende annettersi l’Eretz Israel, ovvero la “terra di Israele”, un concetto biblico ripreso anche dagli apparati strategici israeliani. L’idea è quella di creare un “Grande Israele”, che comprenda l’intera Striscia di Gaza trasformata in una sorta di Riviera del Medio Oriente - un sogno condiviso da parte dell’amministrazione statunitense e dai settori più estremisti del governo Netanyahu. L’intento è quello di trasformare quei territori in un enorme mercato edilizio, ma anche in un avamposto strategico di sicurezza.
L’annessione della Cisgiordania significherebbe l’espansione degli insediamenti dei coloni sionisti già presenti. A Ma’ale Adumim, ad esempio, si stanno costruendo 3.500 appartamenti che dividerebbero in due la Cisgiordania, spezzandone la continuità territoriale - un elemento strategico fondamentale per l’eventuale formazione di uno Stato palestinese. Le operazioni militari verso Libano e Siria rientrano nella stessa logica: ridisegnare completamente la mappa della regione”.
Considerando le affermazioni di Netanyahu, il riconoscimento dello Stato di Palestina può portare a un’ulteriore escalation del conflitto?
“Sì, sicuramente. Israele porterà avanti la guerra, perché fino a quando il riconoscimento dello Stato palestinese non sarà accompagnato da azioni concrete - come il sostegno all’Autorità Nazionale Palestinese o ad altri organi rappresentativi - e da sanzioni o pressioni internazionali verso il governo israeliano, non cambierà nulla. Pensiamo a Paesi come Francia e Regno Unito: da un lato riconoscono lo Stato di Palestina, ma dall’altro continuano a mantenere relazioni militari ed economiche con Israele, senza imporre sanzioni reali. Questo rende il riconoscimento, almeno per ora, un gesto più simbolico che sostanziale.
In particolare, il Regno Unito sembra voler porre rimedio a quanto fatto nel 1917 con la Dichiarazione Balfour. All’epoca, Londra, durante il mandato britannico in Palestina, favorì apertamente l’autodeterminazione del popolo ebraico, ma non quella della comunità araba palestinese.
La visione coloniale dell’Impero britannico considerava gli ebrei come “popolo europeo”, quindi civilizzato, mentre gli arabi venivano percepiti come inferiori, arretrati e incapaci di autogoverno. Questo sguardo orientalistico e razzista si tradusse in una gestione fortemente sbilanciata, che oggi il Regno Unito tenta - seppur in ritardo di 108 anni - di correggere, senza però ancora adottare misure realmente efficaci”.
Questo riconoscimento porterà alla Palestina dei benefici concreti ?
“A livello politico e simbolico, sì: è un riconoscimento importante delle legittime aspirazioni nazionali del popolo palestinese. Ma, a livello pratico, finché non ci saranno sanzioni, una revisione degli accordi economici e militari con Israele e una pressione internazionale più forte, non ci saranno benefici concreti. Anzi, il rischio è che l’escalation prosegua e si intensifichi”.