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Esteri

Un bilancio sul Medio Oriente

Ecco il riassunto – prevalentemente composto dalla traduzione delle frasi più significative - di un pregevole articolo di George Friedman (Stratfor, 9 giugno). Gianni Pardo

Le linee di frattura del Medio Oriente erano due: da un lato il secolarismo europeo, dall’altro l’Islàm. In altri termini, una parte della regione era secolare, socialista e costruita intorno al potere militare; un’altra parte, particolarmente sul modello dell’Arabia Saudita, era islamista, tradizionalista e monarchica.
La seconda linea di frattura era fra gli Stati che erano stati creati dopo la Prima Guerra Mondiale, e la sottostante realtà della regione. Gli Stati del Medio Oriente non somigliavano alle nazioni europee. Al livello più basso, invece di avere un solo popolo, avevano tribù, clan e gruppi etnici; al più alto, vi era la lealtà all’Islàm, e ambedue i maggiori movimenti, quello Sciita e quello Sunnita, pretendevano d’avere un ambito transnazionale.
Un altro elemento di unificazione era Israele, il nemico di tutti. Ma questa ostilità era prevalentemente di facciata. Soltanto l’Egitto e la Siria si sono seriamente opposti ad Israele.
In seguito al crollo dell’Unione Sovietica, e il conseguente collasso del supporto per gli stati socialisti, è aumentato il potere delle monarchie tradizionali. L’unica ideologia rimasta in campo, dopo la fine del socialismo, è stata l’Islàm.

Il collasso dell’Unione Sovietica ha dato energia all’Islàm, sia perché i mujaheddin hanno sconfitto i sovietici in Afghanistan, sia perché era venuta meno l’alternativa all’Islàm. La perdita di legittimazione dei regimi secolari ha aperto la porta a due processi. I gruppo subnazionali hanno visto i regimi esistenti come potenti ma illegittimi. E poi gli eventi in Afghanistan hanno creato l’idea che ritornasse sul proscenio la resurrezione pan-islamica.
Ma vi erano tre problemi. I radicali avevano innanzi tutto bisogno di un contesto, e l’hanno trovato nel califfato transnazionale: un’entità politica unica che avrebbe abolito gli Stati esistenti e che avrebbe allineato all’Islàm la realtà politica. Quanto al contesto storico, ci si rifaceva alle crociate. Gli Stati Uniti erano visti come la maggiore potenza cristiana e divennero dunque un obiettivo. Ma gli islamisti dovevano dimostrare che gli Stati Uniti erano nello stesso tempo vulnerabili e nemici dell’Islàm. E in conclusione dovevano rovesciare i regimi musulmani corrotti, sia quelli secolari sia quelli tradizionalisti.

Il risultato è stato al Qaeda, con la sua campagna per costringere gli Stati Uniti a lanciare una crociata contro il mondo islamico. Se gli Stati Uniti non si fossero mossi, con questo avrebbero accentuato l’immagine della loro debolezza; se si fossero mossi, avrebbero dimostrato che la loro era una potenza crociata ostile all’Islàm. La speranza era che ci fosse una sollevazione che avrebbe spazzato via le frontiere imposte dagli europei e rovesciato gli stati musulmani corrotti ed ipocriti, oltre che complici dell’America.
Ciò condusse all’Undici Settembre. Nell’immediato, l’operazione fallì. Gli Stati Uniti reagirono in modo massiccio agli attacchi, ma non si ebbe alcuna sollevazione, nessun regime fu rovesciato e molti collaborarono con gli americani. Al Qaeda e i suoi amici Talebani furono distrutti. Ma quando gli Stati Uniti cercarono di dare una nuova forma all’Iraq e all’Afghanistan, si trovarono invischiati nelle rivalità regionali.
Distruggendo al Qaeda, gli americani crearono un più grande problema in tre parti: in primo luogo, scatenarono i gruppi subnazionali. In secondo luogo, dove combatterono crearono un vuoto che non potevano riempire. Infine, indebolendo i governi e dando potere ai gruppi subnazionali, resero più evidente la necessità di un califfato come l’unica istituzione che poteva governare efficacemente il mondo musulmano.
La primavera araba fu erroneamente presa per una sollevazione democratica come quella del 1989 in Europa. Invece, più che altro, fu una sollevazione ispirata da un movimento pan-islamico che però non riuscì a rovesciare i regimi. Essa fu tuttavia capace di offrire un secondo slancio all’idea di un califfato. Non soltanto i pan-islamisti lottavano contro i crociati americani, ma stavano combattendo contro gli eretici sciiti, a favore del califfato sunnita. Lo Stato Islamico (SI) mise in atto ciò che al Qaeda desiderava quindici anni prima.
Il Medio Oriente si era trasformato in un gorgo nel quale volteggiavano in competizione quelle forze subnazionali che rappresentavano la realtà della regione. Inoltre, cancellando la frontiera tra la Siria e l’Iraq, lo SI ha creato il nocciolo centrale del califfato, un potere transnazionale o, più esattamente, un potere che trascende le frontiere.

La regione è comunque circondata da quattro potenze principali: l’Iran, l’Arabia Saudita, Israele e la Turchia.
Per l’Iran, il pericolo è che lo SI potrebbe ricreare un efficace governo a Baghdad, che potrebbe di nuovo minacciare l’Iran. Per l’Arabia Saudita, lo SI rappresenta una minaccia esistenziale. E infatti l’Arabia ha necessità di contenerlo, senza concedere terreno agli Sciiti. Gli Israeliani possono essere contenti di vedere i loro nemici scontrarsi fra loro, ma esiste la possibilità che in futuro si trovino a doversi confrontare con un nemico unico e più forte. Assad è meno pericoloso dello SI.
I turchi sono invece i più difficili da capire. Essi non sono ostili allo SI quanto lo sono al governo di Assad. Forse considerano lo SI un pericolo minore. Può darsi anche che si aspettino che lo Si sia sconfitto dagli Stati Uniti; oppure potrebbero essere meno ostili di altri alla vittoria dello SI. Il governo turco ha vigorosamente negato di avere aiutato lo SI, ma le dicerie e i sospetti al riguardo non sono cessati. Tutto ciò è incomprensibile, a meno che i turchi non vedano lo SI come un movimento che essi possono controllare, in fin dei conti, e che esso stia spianando il terreno per un potere turco nella regione.

Lo SI rappresenta la logica continuazione di al Qaeda, che ha lanciato sia l’idea di un potere islamico, sia l’idea degli Stati Uniti come una minaccia per l’Islàm. Inoltre meraviglia la capacità dei combattenti dello SI sul campo di battaglia, cosa che fa porre domande riguardo all’origine sia delle loro risorse, sia della loro istruzione militare. E per giunta lo SI ha cominciato a diffondersi anche in altre aree, per esempio in Libia. Anche se probabilmente le forze locali sono, per così dire, in franchising.
La differenza fra al Qaeda e lo SI è che quest’ultimo desidera esplicitamente creare un califfato. E intanto, come minimo, sta operando con un comando centralizzato, al livello strategico, che lo rende molto più efficiente delle altre forze non statali viste sino ad ora.
Il secolarismo, nel mondo musulmano, sembra essere alla fine della sua ritirata. Lo scontro è soltanto fra Sunniti e Sciiti, e fra le fazioni regionali. La principale potenza occidentale manca della capacità di pacificare il mondo islamico. Pacificare un miliardo di persone va del resto al di là delle capacità di chiunque.
È interessante notare che la caduta dell’Unione Sovietica ha messo in moto gli eventi che ora qui vediamo. È anche interessante notare che l’apparente sconfitta di al Qaeda ha aperto la porta al suo logico successore, lo SI. Rimane da vedere se le quattro potenze regionali possano o vogliano “controllare” lo SI. E al cuore del problema sta il mistero di ciò che la Turchia ha in mente, particolarmente nel momento in cui il potere del presidente turco. Recep Tayyp Erdogan, sembra essere declinante.

George Friedman
A Net Assessment of the Middle East