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Politica
Elezioni, il Cdx può fare "cappotto". L'analisi di D'Alimonte non convince
Referendum Seggi

Il fatto che non esista la possibilità di esprimere il voto disgiunto crea una sorta di implicito premio di maggioranza; infatti, i voti dell’elettore espressi in favore della lista prescelta nei collegi plurinominali si estendono automaticamente in favore del candidato collegato nei collegi uninominali, creando un effetto-traino. Se si considera che negli uninominali il seggio è attribuito al candidato che ottiene più voti, per conquistarne tanti sarà sufficiente per le coalizioni (o liste che corrono da sole) prevalere anche di un solo voto in più sugli altri nei collegi plurinominali. Ci spieghiamo meglio con un esempio. Immagini il lettore un rettangolo con dentro tanti cerchi e collegato a questo rettangolo tre palloncini. Bene, il rettangolo è il collegio plurinominale, i cerchi sono le liste (singole o in coalizione) del plurinominale, i palloncini i collegi uninominali. Non essendoci voto disgiunto, la lista o coalizione di liste che nel plurinominale ottiene più voti acchiappa tutti e tre i palloncini, cioè tira con sé i tre collegi uninominali. Ciò che è accaduto nel 2018 al centrodestra nel Centro-Nord e al M5S nelle sette regioni meridionali, determinando la situazione di stallo. Il centrodestra si fermò al 37% dei voti e il 43% dei seggi, il M5S al 32,7% dei voti e al 40% dei seggi. Nel caso in cui non si fosse verificata al Sud l’onda gialla da parte dei 5Stelle (non pronosticata dai sondaggi), il centrodestra avrebbe ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi anche solo col 38-40% dei voti.

Vediamo come stanno le cose questa volta.

Roberto D’Alimonte recentemente ha scritto che “l’esito delle prossime elezioni si giocherà nei collegi uninominali della Camera e soprattutto del Senato. Non è stato così nel 2018”. Non siamo d’accordo. I collegi, circa tre uninominali per ciascun plurinominale, sono strettamente connessi. L’uno è dipendente dall’altro per l’assenza del voto disgiunto. Facciamo un esempio. Se nel collegio plurinominale X la coalizione A ottiene 101 voti, la coalizione B 100 e la lista C 99, la colazione A – per effetto dell’estensione automatica dei voti dalla lista del plurinominale al candidato dell’uninominale collegato (e viceversa) – si tira dietro anche tutti e tre i collegi uninominali, cioè li vince tutti e tre (in questo meccanismo vanno considerate piccole eccezioni, come ad esempio le due soglie, quella del 3% e quella dell’1%, ma non è questa la sede per approfondirle). Pertanto, non si può dire che la partita stavolta si gioca negli uninominali. Su quali basi tecniche D’Alimonte fa questa affermazione? La partita si gioca in ciascun collegio plurinominale e di conseguenza, per i meccanismi visti finora, negli uninominali collegati. Certo è che, se i candidati degli uninominali sono persone di qualità e rispettate nei territori, è molto più facile l’effetto-traino, ma sempre nell’ottica che plurinominale e uninominali sono strettamente connessi per l’assenza di quel voto disgiunto di cui D’Alimonte non tiene conto.

Torniamo ai numeri. Ad oggi il centrodestra è dato nei sondaggi nella forbice 44-48%, mentre centrosinistra e M5S, come si è visto, dovrebbero correre da soli, dividendo le loro forze e dunque lasciando al centrodestra la possibilità di fare cappotto ovunque. È pur vero che al posto del M5S ci saranno in coalizione col Pd i “centristi” di Italia Viva, Azione, più Europa etc, ma in buona sostanza si tratta di ex Pd che ritornano alla base attraverso un nuovo soggetto politico che sfrutterà il nome di Draghi. Tuttavia, il bacino elettorale, salvo qualche oscillazione, è sempre quello. Non saranno certo Toti & Company a fare la differenza. In termini di applicazione dei meccanismi della legge elettorale tutto questo significa che se il centrodestra prevalesse in gran parte dei collegi plurinominali, ottenendo in media il 45-46% dei voti su base nazionale, potrebbe aggiudicarsi non meno del 60% dei seggi in entrambe le Camere (al Senato anche di più se consideriamo che nelle Regioni più piccole la coalizione più votata potrebbe aggiudicarsi tutti i seggi anche nei plurinominali). Ecco perché D’Alimonte sbaglia a dire che questa volta la partita si gioca negli uninominali. Senza voto disgiunto, come si è visto, plurinominali e uninominali sono strettamente connessi.

Resta la “questione meridionale”. Nel 2018 il M5S ottenne circa il 40% dei seggi in Parlamento con meno del 33% dei voti in quanto al Sud fece “asso piglia tutto” con picchi in alcuni collegi plurinominali del 47-49%, risultati che questa volta non si potranno ripetere per ovvie ragioni. Ma attenzione. Se Di Battista entra in partita e punta, come programma elettorale, sulla “questione sociale” e quindi anzitutto ad allargare la platea dei destinatari del reddito di cittadinanza, in qualche collegio del Sud potrebbe prendere buoni voti indebolendo il centrodestra e rafforzando il centrosinistra, soprattutto in Campania, Puglia, Molise, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna, ridimensionando il successo del centrodestra.

Per non rischiare di far vincere il centrosinistra nelle regioni del Sud grazie ai voti che il M5S toglierebbe al centrodestra, Salvini e alleati potrebbero giocare di anticipo e non proporre in campagna elettorale l’abrogazione del reddito di cittadinanza, anzi, bene farebbero a confermare la misura ma con aggiustamenti concreti che non creino distorsioni al mercato del lavoro. C’è poi il problema dell’astensionismo (con un 40% circa ancora di indecisi) che come noto più aumenta e più avvantaggia la sinistra. Tutto dipenderà dai temi della campagna elettorale, dalla capacità dei leaders di convincere gli elettori e per alcuni anche di chiedere pubblicamente scusa ai milioni di italiani oppressi da una gestione della pandemia e da una vaccinazione forzata fallimentari dal punto di vista sanitario. Una occasione come questa non ricapiterà facilmente al centrodestra. Certo è il “vecchio” centrodestra, ma dall’altra parte non c’è niente di nuovo, anzi non c’è proprio niente.

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