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Politica
Fico, il meetupparo che vuole lasciare il segno a Montecitorio

C’è chi, soprattutto in terra partenopea, lo vedrebbe benissimo come sindaco di Napoli, la sua amatissima città. Ma non mancano, spostandosi questa volta nei palazzi romani, quelli che già lo collocano tra i padri nobili del Movimento cinque stelle. Tuttavia, Roberto Fico, già al secondo mandato, qualora non ci fosse il paracadute della deroga, almeno stando a quanto raccontano in ambienti vicini al presidente della Camera, non avrebbe affatto il chiodo fisso del cosa fare da grande: “Riveste un ruolo istituzionale e ciò che più gli sta a cuore è proprio il lavoro avviato a Montecitorio”. Dalla riforma dei regolamenti all’attività già in corso di desecretazione e pubblicazione degli atti delle commissioni d’inchiesta e fino al progetto di un portale unico per digitalizzarli. Insomma, se la terza carica dello Stato ha un’ambizione per il futuro prossimo è senza dubbio quella di lasciare un segno tangibile a Montecitorio. Non basta, perciò, la foto che spetta di diritto a tutti i presidenti delle Camere nella sala Corea del palazzo. Fico vuole di più. “Attenzione, questo non significa - precisa una fonte ad Affaritaliani.it - che il Movimento passi in secondo piano. Al presidente sta a cuore il M5s e non potrebbe essere altrimenti, visto che ha contribuito a farlo nascere e a farlo crescere”.

Non è il caso di scomodare la maieutica socratica, ma Fico, da fondatore del primo storico meetup “Gli amici di Beppe Grillo”, a Napoli nel 2005, ha rivestito in qualche modo il ruolo di levatrice. Sotto la sua ala protettiva sono infatti cresciuti diversi esponenti Cinque stelle, dall’ex deputato Riccardo Nuti in Sicilia allo stesso Luigi Di Maio a Pomigliano d’Arco. Ecco perché sulle sorti del Movimento, sugli errori commessi o da evitare e sulla futura riorganizzazione continuerà “a buon diritto”, per usare le parole di un parlamentare che lo conosce bene, “a dire ciò che pensa”. Dalla sua, tra l’altro, ha anche un buon feeling con Grillo. Di sicuro maggiore di quello con l’ex capo politico del Movimento cinque stelle. Non tanto da poter parlare di “grande freddo” o di conflitto, ma è un dato di fatto che tra Fico e Di Maio ci siano divergenze di pensiero. Distanze emerse soprattutto ai tempi del governo Conte uno quando l’alleato del M5s era la Lega di Salvini. Leggere, appunto, alla voce migranti e decreti sicurezza. Un capitolo mai digerito da Fico che, proprio ieri, complice la cerimonia del Ventaglio a Montecitorio, non ha mancato di “picconare” di nuovo su questo fronte. Sia nel merito, esprimendo la convinzione della necessità di modificarli, e sia nel metodo, definendoli uno dei tanti casi in cui “non andavano fatti decreti”. Ma la posizione del presidente della Camera su sbarchi e Ong è stata sempre netta. Come non ricordare infatti gli scontri verbali con Salvini o l’epiteto di “Boldrino” che per prima Giorgia Meloni gli cucì addosso?

In fondo, Fico incarna più di tutti l’anima di sinistra del Movimento, ma è anche tra gli esponenti pentastellati più affezionati all’ortodossia del M5s, a cominciare da quel “uno vale uno” che, poi, appunto, con l’investitura di Di Maio come leader è finito in soffitta. Ma che non è detto non possa in qualche modo tornare. D’altronde, se agli Stati generali d’autunno dovesse prevalere l’ipotesi di una sorta di segreteria allargata per guidare il Movimento, almeno si potrebbe dire superata la stagione della gestione monocratica. E questa ipotesi non dispiacerebbe affatto alla terza carica dello Stato. Di uomini soli al comando, insomma, Fico non ne vuole sapere. Tant’è che alcuni atteggiamenti da solista che sta tenendo il premier Conte ultimamente, come raccontano diverse fonti incrociate da Affaritaliani.it, “cominciano a infastidirlo. Passare da un Di Maio accentratore - spiegano – a un Conte accentratore? Anche no”.  In quest’ottica potrebbe leggersi ad esempio la “sventagliata” arrivata ieri durante la tradizionale cerimonia di fine luglio: Fico ha voluto rimarcare il ruolo centrale d’indirizzo che dovranno avere le Camere nell’indicare le priorità nella gestione dei fondi del Recovery fund, definendo il Parlamento “la prima task force degli italiani”.

In realtà, ambienti vicini alla presidenza della Camera spiegano ad Affaritaliani.it che “i rapporti tra Fico e Conte sono ottimi. E lo sono sempre stati sin dai tempi del governo gialloverde”. Anzi, nei corridoi del Palazzo c’è pure chi ricorda proprio “il contributo tutt’altro che secondario dato dalla terza carica dello Stato per agevolare la nascita del governo Pd-M5s. E’ stato in qualche modo l’artefice di quella soluzione, mostrandosi altruista e facendo un passo indietro”.  Ad agosto scorso, in effetti, soprattutto tra le fila del Pd, ma anche della stessa Leu, erano in tanti a spingere perché fosse l’attuale terza carica dello Stato il nuovo presidente del Consiglio. Tirando le somme, quindi, Fico un risultato può dire di averlo portato a casa. Certo, deve sperare che non ci siano crisi all’orizzonte. In tal caso, invece, la sua sarebbe una vittoria dimezzata. Come quella, per esempio, sulla legge dell’acqua pubblica, ancora a metà del guado ma sulla quale continua a martellare. La battaglia per i beni comuni infatti rimane la bussola del suo fare politica, per cui raggiungere questo obiettivo sarebbe sì una stella da appuntarsi al petto. Come pure la riforma della governance Rai, per recidere una volta per tutte i legami con la politica, che rimane un traguardo da raggiungere. Non foss’altro perché è stata la cifra della sua presidenza alla commissione di Vigilanza Rai nella passata legislatura. Per tacere della vicenda di Giulio Regeni. D’altro canto, la presidenza di Montecitorio targata Fico ha il suo marchio distintivo proprio nell’impegno per la ricerca della verità dopo la barbara uccisione del giovane ricercatore in Egitto. Sarà per questo che l’inquilino di Montecitorio sulla questione non si si risparmia. Al punto da annunciare addirittura, era il 29 novembre 2018, l’interruzione dei rapporti con le istituzioni del Cairo di fronte all’assenza di una svolta nelle indagini. Senza andare così indietro nel tempo, la terza carica dello Stato, neppure un mese fa, ha detto senza giri di parole che “l’Egitto ha dato un vero e proprio cazzotto in faccia all’Italia, a tutti gli italiani, al nostro Stato”, dopo il flop dell’incontro tra le procure. Fino a chiedere, ieri, “un forte cambio di passo e di strategia”. Una critica neanche troppo larvata alla linea seguita fino a questo momento e di cui la vendita delle due fregate militari all’Egitto è solo l’ultimo tassello. Chi conosce il Fico-pensiero sa bene che nel mirino del presidente della Camera c’è la gestione tout court della faccenda e, quindi, l’approccio conservativo, declinatosi in una continuità di rapporti che non ha dato frutti, seguito da Conte ma anche da Di Maio. Sul nome “Regeni”, insomma, cade ogni forma di prudenza legata al ruolo istituzionale che riveste.

Un ruolo che, comunque, richiede, soprattutto quando si tratta di incursioni sul terreno politico, interventi cum grano salis. Almeno guardando a come sembra averlo interpretato il presidente della Camera. Si potrebbe spiegare così, ad esempio, il suo silenzio su un tema caldo come le Regionali e i tentativi di alleanze tra Pd ed M5s. Ma Fico è rimasto silente pure sull’annosa questione in casa pentastellata deroga sì-deroga no al secondo mandato. Dallo scranno che fu di Pertini, Ingrao e Iotti, infatti, non è stato proferito verbo. Alcuni detrattori, interpellati da Affaritaliani.it, sostengono che il suo sia “un alibi. E’ astuzia. Non vuole scoprire le sue carte”. Ma c’è anche chi replica: “Conosco bene Fico. Il presidente sta solo rispettando i ruoli. In questo caso quello del reggente Crimi”.  Una cosa è certa: Fico non è Gianfranco Fini. Nessun “che fai mi cacci”, come ai tempi dello scontro con Silvio Berlusconi, è minimamente ipotizzabile. Le idee sul Movimento che ha contribuito a far crescere, di certo le esterna, ma nei modi che l’alta carica istituzionale che ricopre consente. Una questione di equilibrismo, insomma. Ma che non lo ha snaturato: “E’ rimasto quello di sempre, non si è imborghesito - racconta un insider -. E questo è evidente anche plasticamente quando dismette la cravatta e torna in pantaloncino e maglietta, il ragazzo scapigliato di sempre, un meetupparo tra i meetuppari”. Se è rimasto il Fico delle origini pure sul fronte della guerra giurata al professionismo della politica e, quindi, se sia ancora fedele al voto del mandato a termine non è dato sapere. Agli Stati generali d’autunno, forse, scopriremo come la pensa.

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