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Politica
Governo Lega, cresce chi vuole rompere. Ma per Salvini meglio Conte del voto
Foto LaPresse

Il paradosso dei duri e puri della Lega, quelli per cui il governo Conte non sarebbe mai nato, non è tanto come andare avanti e come rilanciare l'azione dell'esecutivo bensì come trovare il modo di staccare la spina senza restare mediaticamente con il cerino in mano. In Via Bellerio sono arrivati gli ultimi sondaggi dell'Istituto Piepoli, di Euromedia Research e dell'Swg e tutti concordano sul fatto che la Lega sia ulteriormente cresciuta rispetto al 34,33% del 26 maggio e che con Fratelli d'Italia (senza Forza Italia e Silvio Berlusconi) abbia la maggioranza assoluta sia alla Camera sia al Senato in caso di ritorno alle urne per le Politiche a settembre.

Quando si fanno notare questi numeri e queste proiezioni ai colonnelli del Carroccio la risposta è più o meno la stessa: dipende da cosa vuole fare Matteo. E il ministro dell'Interno, al di là dell'importanza della parola data firmando il contratto con Luigi Di Maio, vuole essere sicuro di non passare per il killer del governo. E, soprattutto, vista la difficilissima trattativa con l'Unione europea in autunno sulla Legge di Bilancio, con l'incubo spread sempre in agguato, considera tutto sommato meglio fare il vicepremier e il partner di governo numero due (in termini di deputati e senatori) piuttosto che andare a scontrarsi con Bruxelles da presidente del Consiglio e con una maggioranza assoluta schiacciante.

A quel punto non avrebbe più alibi e non potrebbe più incolpare i no dei 5 Stelle, appellandosi alla mediazione di Giuseppe Conte. Flat tax con relativo choc fiscale, non far scattare l'aumento dell'Iva e rifinanziamento di quota 100 (punto interrogativo sul reddito di cittadinanza in caso di nuovo governo): forse anche per Nembo Kid-Superman Salvini è troppo soprattutto alla luce dell'improbabile ok dell'Unione europea alla revisione dei parametri (deficit / Pil al 3% in testa) alla luce dei risultati delle elezioni europee negli altri Paesi. Resta il fatto che i leghisti, ma non quelli che cucinano salamelle e versano la Bonarda nelle feste di partito, bensì i colonnelli in Parlamento e al governo scalpitano e premono per trovare il modo di staccare la spina.

In cima alla lista di chi tornerebbe dritto alle elezioni c'è il ministro delle Politiche Agricole Gian Marco Centinaio, il più attivo negli ultimi giorni nel cannoneggiamento di dichiarazioni, ma anche il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti farebbe volentieri a meno di continuare a trattare con Di Maio e Conte. Un altro che non farebbe durare un secondo in più l'esecutivo è Edoardo Rixi, ex vice-ministro alle Infrastrutture che si è dovuto dimettere, come richiesto dai 5 Stelle, per la condanna in primo grado su 'rimborsopoli' in Liguria.

Ma anche il ministro della Famiglia e delle Disabilità Lorenzo Fontana, spesso al centro degli attacchi dei pentastellati, staccherebbe volentieri la spina. Molti dubbi su come continuare anche da parte dei due capigruppo Riccardo Molinari (Camera) e Massimiliano Romeo (Senato), più il primo che il secondo. Anche il sottosegretario alla Difesa Raffaele Volpi, alle prese con lo scontro quotidiano con la ministra grillina Elisabetta Trenta, correrebbe subito al voto. Senza dimenticare il vice-ministro all'Economia Massimo Garavaglia che dopo il caso della lettera di risposta all'Ue ha dichiarato di aver pensato alle dimissioni (segno di un malessere profondo).

Non va dimenticato il Governatore del Veneto Luca Zaia, sempre più in sofferenza per i ritardi sull'autonomia regionale. E, tornando al governo, altri che manderebbero volentieri tutto all'aria sono i sottosegretari Guido Guidesi (Rapporti con il Parlamento), Nicola Molteni e Stefano Candiani (Viminale). Pochi quelli che vorrebbero andare avanti a tutti i costi, tra loro il vice-ministro allo Sviluppo Economico Dario Galli e il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon. In molti, a microfono spento, sottolineano come il vero motivo - con la ricerca della mediazione quasi impossibile - non sia né l'autonomia né la flat tax, ma la giusitizia.

La posizione del M5S portata avanti dal ministro Alfonso Bonafede - dicono nel Carroccio - è inconciliabile con la riforma che hanno in testa i leghisti. Fatto sta che alla fine dovrà decidere Salvini. Lui è il capo, lui prende i voti e lui ha firmato il contratto con Di Maio. La pancia della Lega scalpita e vuole trovare il modo di rompere, ma il leader non è affatto convinto...

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