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Governo, parapiglia Letta-Salvini. Fortuna che Draghi c’è
Enrico Letta Matteo Salvini
Lapresse

Governo, parapiglia Letta-Salvini. Fortuna che Draghi c’è

La bonaccia politica dovuta al governo di unità nazionale è solo apparente. Non solo perché i sondaggi dimostrano un elettorato in movimento che premia costantemente l’unico partito all’opposizione (Fdi a ridosso del 19%, a un punto dal Pd, con la Lega in calo sotto il 22%, e il M5S giù, sul 16%) ma perchè i partiti si sentono esautorati dalla premiership di Draghi temendo di pagare dazio.

Davanti ci sono appuntamenti importanti quali le elezioni amministrative di 1312 Comuni fra cui Roma, Milano, Torino, Bologna, Napoli e poi a fine gennaio 2022 l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Con l’aria che tira nessun partito di governo osa mettere apertamente in discussione l’attuale premier e la coalizione di “larghe intese”. Tutti, però, temono di venir  prima o poi soffocati da questo status quo. Da qui l’esigenza  di distinguersi: o con azioni tattiche di disturbo, anti coalizione ma senza intaccare la premiership di Draghi, come fa Salvini; o con una strategiapolitica più articolata come prova a fare Letta.

L’ex premier punta a rimettere al centro il pidì condizionando l’uso e la spartizione dei miliardi Ue  e  mettere il cappello sull’elezione del nuovo inquilino del Colle bruciando le velleità del leder leghista che spinge forte per Draghi capo dello Stato con la speranza di ottenere poi, nella primavera 2022, le elezioni politiche anticipate. Elezioni anticipate aborrite dal Pd, tutt’ora né carne né pesce data la mancanza rigeneratrice dell’”effetto Letta”, e soprattutto vista come jattura dal M5S, partito senza capo né coda, che rischia di mandare in tilt anche il tentativo di rilancio del pur “navigato” e lucido ex premier Conte. Fatto sta che dopo tre mesi del governo Draghi, l’unico partito ad averne tratto vantaggio è Fratelli d’Italia, lanciato a superare la soglia del 20% e prendersi la leadership del centro-destra. Accapigliandosi sul coprifuoco, sulle riaperture alle 23 piuttosto che alle 22, Salvini ha scambiato le priorità (Recovery plan, piano vaccinale) infilandosi nel cul de sac.

Così il capo leghista  ha lasciato a Draghi tutto il merito di quel che sta andando bene, rischiando di apparire – anche verso il suo elettorato – quello che mette a vanvera i bastoni fra le ruote o anche il can che abbaia ma non morde. Ed ecco Letta: ben sapendo che la Lega non è (numericamente) determinante in questa maggioranza, provoca Salvini, additandolo come un estraneo guastatore, sperando che sia lui a far saltare il banco, pagandone totalmente il fio. Parapiglie di bottega. Il rischio è che, passata la bufera, si minimizzi la pandemia quale incidente di percorso e che l’Italia ritorni quella di prima, ritoccando la superfice senza intervenire con scelte e riforme innovative. Non è quello che sta facendo negli USA nei suoi primi 100 giorni Biden con il pacchetto di sostegno al welfare di 1800 miliardi di dollari finanziato per lo più con l’aumento delle tasse ai ceti più ricchi (1.500 miliardi di dollari)? Altro che il Pd di Letta che tira a campare con mediazioni di potere dentro e fuori il governo! Forse, cercando una alleanza strategica con quel M5S teorizzatore della Flat tax, con le riforme vere il Pd toccherebbe con mano la inconsistenza politico-strategica di una tale alleanza ritrovandosi da solo. Letta s’accapiglia con Salvini per lo più in beghe da pollaio ma si guarda bene da porre il Partito democratico, adesso nel governo e nella società, alla testa di una azione riformatrice coraggiosa e innovativa riducendo le disuguaglianze, facendo pagare a chi più ha, dando almeno un segnale “di sinistra”, di dove si vuole portare l’Italia.

Su questioni politiche e non sulle tensioni Pd-Lega, sulla guerra legale nel M5S, sulle bagarre delle candidature alle amministrative, Letta deve dare battaglia indicando una linea strategica. Resta però il fatto che Draghi guida il governo con “pugno di ferro in guanto di velluto”, forte di un gruppo di “suoi” ministri che “tirano”, poco preoccupato degli altri ministri “partitici” che vengono sempre dopo, come l’intendenza.  Insomma, l’effetto Draghi c’è. Sulle vaccinazioni la barca sta andando: se davvero si arriva alla immunità di gregge o almeno se si arriva a fine giugno con la curva dei contagi e i tassi di mortalità in grande calo si abbattono le restrizioni e le quarantene salvando in primis il turismo che nel Belpaese vale da solo un euro ogni sei di Pil.

Sul Recovery Fund fra un paio di mesi si avranno le modifiche e poi il via libera di Bruxelles, se non altro una sferzata di ottimismo per l’economia cui dovranno seguire poi, a tappe forzate, la capacità di rendere operativi i progetti ancora sulla carta. Su questo, gestendo la bomba sociale della scadenza del blocco dei licenziamenti di fine giugno e sapendo stare sul treno della ripresa europea non nell’ultimo vagoncino, l’Italia si gioca il suo futuro. In tale quadro, dove le tensioni fra le botteghe dei partiti cresceranno, è realisticamente ipotizzabile un ribaltone, la crisi di governo? Non scherziamo. Il bandolo della matassa ce l’ha in mano Draghi, l’unico oggi in grado di “garantire” per l’Europa, l’unico oggi di evitare che il Paese precipiti.

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