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Politica
In difesa di Durigon
Claudio Durigon Lapresse

Essere vecchi non è un divertimento. Soprattutto se si ha la testa dei trent’anni e il corpo degli ottanta e passa. Ma questo non vi interessa, lo so. Lo dicevo per sottolineare che, se non si perde la memoria, essere vecchi significa anche ritrovarsi con un bagaglio di nozioni che non sono state imparate sui banchi ma vivendo giorno per giorno. La Prima Guerra Mondiale, che faceva parte del bagaglio dei miei genitori, per me è stata un fatto “libresco”, mentre per la Seconda è tutto un altro paio di maniche. Ero un bambino, ma capivo benissimo quello che avveniva intorno a me.

A sei anni ero un “Figlio della Lupa”, ma a sette ho cominciate ad incassare le delusioni della guerra. Ne avevo otto quando le operazioni al fronte – e le privazioni – divennero una cosa seria. Ne avevo nove quando la fame mi tormentava, la guerra appariva già perduta, o almeno non vinta, e il fascismo era divenuto impopolare. La radio continuava ad esprimersi in termini trionfalistici, le facciate mute delle case abbondavano di massime di Mussolini, ma il regime era sommerso più o meno sottovoce dai sarcasmi. Poi, nel ‘43 fu la débâcle. Non soltanto la guerra era persa, ma in estate ospitammo il mondo: inglesi, americani, marocchini, neozelandesi, australiani, indiani. Il fascismo non soltanto era morto, ma non se ne vedevano neanche le ossa. Ci lasciava umiliati, privi di dignità nazionale, risibili come combattenti, affamati, dimagriti, malvestiti, quasi dei mendicanti che vivevano anche della carità degli invasori. Oltre che vendendogli le nostre donne.

Questo per dirvi che, se a sei anni ero figlio della Lupa, a dieci ero antifascista, seppure con la pietà nel cuore per coloro che ci avevano creduto e magari erano morti. Per non parlare della pietà che si era obbligati a sentire per i nostri soldati che, privi di ordini e di sostegno, gettavano la divisa alle ortiche (se potevano cambiarla con abiti civili) e tornavano in Sicilia a piedi dal nord, più stanchi di Ulisse e simili a corpi rigettati dal mare sulla battigia.

Sono dunque antifascista da prima del 1944. Da prima che essere antifascisti divenisse una moda e un’ovvietà. Lo sono perché ho visto i guasti del fascismo prima di altri, avendo assaggiato il peggio prima ancora del resto degli italiani. Insomma, come un tempo c’erano coloro che si vantavano di essere “fascisti antemarcia”, cioè da prima del 1922, io potrei vantarmi di essere un “antifascista antemarcia”, cioè da prima che l’antifascismo divenisse una religione.

Tutto ciò significa anche che ho visto un’Italia che, per piaggeria, intitolava questo e quello alle glorie del regime, come ho poi visto la stessa Italia che, a guerra perduta, ha scalpellato via i nomi del Ventennio per rimettere in vigore i vecchi, e c’è mancato poco che Agrigento ridivenisse Girgenti.

Mi è sempre sembrata una cosa ridicola. Per anni sono stato docente ordinario in un liceo intitolato al Principe Umberto e non ho mai sentito il bisogno di lamentarmene. I miei avevano votato per la repubblica, ma che guerra avrei vinto, passando dal “Liceo Principe Umberto” al “Liceo Matteotti”? Non è vero che nomina sunt consequentia rerum, i nomi sono soltanto delle etichette. L’aragosta rimane la stessa bestia anche se la chiamate langouste o lobster. E invece gli sciocchi credono che, cambiando i nomi, cambiano le cose. Infatti, la prima cosa che fa il rivoluzionario di complemento, è cambiare il nome. Il Ministero dell’Educazione Nazionale diviene così il Ministero della Pubblica Istruzione, e sai che guadagno. Del resto, anche il Ministero della Guerra, Dio guardi, diviene il Ministero della Difesa. Anche se poi noi siamo stati costretti ad andare a difenderci in Bosnia.

Quella dei nomi è una seccatura, per non dire una cosa ridicola. San Pietroburgo, città intitolata a San Pietro che, salvo errori, non era zarista, da prima divenne Petrograd, poi Leningrado e infine, dopo parecchie esitazioni (al punto che si votò) ridivenne San Pietroburgo, nome lungo sostituito correntemente e affettuosamente da Piter. Per fortuna, malgrado tutti questi cambiamenti di nome, è rimasta sempre la stessa bella città.

E con questo vengo a Claudio Durigon, il fellone colpevole di avere proposto di ripristinare a Latina, se non vado errato, il vecchio nome del parco, ora intitolato a Falcone e Borsellino (secondo la moda), ad Arnaldo Mussolini. Per questo crimine imperdonabile è stato costretto, anche dai suoi amici, a dimettersi da vicesegretario di Stato. L’ha proprio fatta grossa. Intitolare un parco ad Arnaldo Mussolini, come si può concepire? Anche se si è chiamato così da quando l’hanno creato fino a qualche anno fa.

A questo punto l’ignaro lettore potrà chiedere quanti antifascisti abbia fatto uccidere questo Arnaldo Mussolini, indegno rappresentante della specie umana. Quali leggi razziali abbia approvato. Quanti ebrei abbia fatto gasare. Od anche, ad andar bene, in quale misura sia stato responsabile dell’improvvido (e vigliacco) ingresso dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale. La risposta la dà sua data di morte: è morto nel 1931. E che cosa aveva fatto nella vita? Il docente di agraria, il maestro elementare, il giornalista. Nient’altro. Sì, era stato fascista, ma come tanti altri. O ci dobbiamo vergognare di quei quaranta milioni di italiani che sono stati fascisti nel 1939? Arnaldo Mussolini ha dovuto quell’intitolazione del parco all’affetto di suo fratello, che molto lo stimava e molto lo rimpianse. Ma dobbiamo condannare Mussolini per aver voluto bene a suo fratello? Ma in che mondo viviamo? Abbiamo sopportato la veemenza, quando non la violenza verbale vagamente popolaresca, di Alessandra Mussolini, che aveva il diritto di pensarla come la pensava e di essere com’era, e non possiamo sopportare le ossa anonime di un galantuomo?

Durigon si è dimesso da sottosegretario, ma molti, moltissimi dovrebbero dimettersi da persone intelligenti. Forse però non hanno da che dimettersi.

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