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Politica
Ingroia fa il suo dovere di magistrato
Antonio Ingroia

di Gianni Pardo

Antonio Ingroia ha annunciato che fra qualche giorno lascerà formalmente la magistratura per darsi interamente alla politica. Chi è appassionato di cronaca giudiziaria, di scandali e di dietrologia, sul personaggio ne saprà molto di più di chi si è limitato a leggere i titoli dei giornali: e tuttavia la mancanza di “cultura specifica” in questo caso può essere utile per meglio cogliere l’essenza del fenomeno.

Tutti i cittadini italiani hanno non solo il diritto, ma anche il dovere morale di interessarsi di politica. Ognuno deve partecipare, secondo le proprie possibilità, allo sforzo di indirizzare il Paese nella giusta direzione. Figurarsi dunque se questo diritto non hanno i magistrati, professionisti severamente selezionati e giuridicamente attrezzati per comprendere quanto e più di altri i problemi dello Stato. E tuttavia per loro si impone un dovere supplementare. Ciò che è legittimo per tutti - tifare per una squadra piuttosto che per un’altra - per l’arbitro di calcio è assolutamente vietato. È lui stesso che ha scelto l’equidistanza. È lui stesso che ha l’obbligo morale di non confessare mai le proprie preferenze, nel caso le abbia, oltre che lo strettissimo dovere di non lasciarsene influenzare. È umano avere la tentazione di dare un calcio al pallone, se ci viene fra i piedi, ma abbiamo visto innumerevoli volte l’arbitro schivarlo con un saltello. E se malgrado tutto esso lo colpisce, si dice che è come se avesse colpito un palo della porta. Il paragone è perfetto: il palo non ha preferenze e si comporta nello stesso modo chiunque sia il portiere.

Per tutte queste ragioni il fatto che Ingroia lasci la magistratura è un’eccellente notizia. Non importa, infatti, se la sua azione sia stata meritoria o faziosa, dettata dall’amore per la patria e la giustizia o dalla passione politica di parte. Importa che egli sia riuscito, scendendo in politica e confermando così la potenza delle sue passioni, a confermare il sospetto che hanno tanti italiani, secondo cui la toga può essere usata come un’arma. E questo danneggia la magistratura al di là del tollerabile. Già gli italiani si avvoltolano nei peggiori sospetti persino nei confronti dei migliori galantuomini, non credono alla buona fede di nessuno e considerano l’avere a che fare con la giustizia una delle peggiori disgrazie, non foss’altro per i tempi biblici della sua attività: manca solo che considerino politiche tutte le sentenze. Che in una lite tra un ricco e un povero, un uomo e una donna, un bianco e un nero, credano di sapere in anticipo, prima di leggere le carte, chi abbia ragione. Questa è la fine della giustizia.

Ingroia ha forse creduto di moralizzare l’Italia. E forse ci ha provato. Non ha capito che, quand’anche fosse moralmente lodevole, ciò sarebbe lo stesso un errore. Un arbitro non può, vedendo perdere una squadra che in tutti i casi avrebbe meritato di vincere, concederle un rigore che non c’è per ottenere un più equo risultato sportivo.

Purtroppo, questo magistrato palermitano è l’epigono di una stagione che ha fatto molto male all’immagine della giustizia. Tutto è cominciato con le famose “Mani Pulite”, quando un altro magistrato affermò che il “pool” intendeva “rivoltare l’Italia come un calzino”. Non capiva - quel pur colto magistrato - che da un lato la magistratura non è investita di missioni storiche e salvifiche, dall’altro che proprio la stessa magistratura dei suoi tempi non era moralmente legittimata a questa azione. Per decenni aveva volontariamente chiuso gli occhi su quel genere di malaffare nazionale che ora perseguiva e non aveva avuto orecchie neppure per le denunzie che riceveva. Chi prima è complice non è poi legittimato ad essere vindice.

Esiste il reato di vilipendio della magistratura, forse figlio di un eccesso di autoritarismo. Un’eco della “lesa maestà” di un tempo. Ma nessun vilipendio eguaglierà mai, in termini di efficacia, il danno che hanno potuto fare all’amministrazione della giustizia alcuni magistrati. Tutto cominciò, molto tempo fa, con i “Pretori d’assalto”, la cui denominazione era sufficiente a dimostrare quanto fossero in errore: chi assalta si batte per qualcuno contro qualcuno, e dunque non è un giudice. Un simile magistrato, se lascia la toga, fa esattamente il suo dovere. Abbandona un mestiere che non è il suo.

giannipardo@libero.it

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