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Palazzi & potere

Vincenzo Bocciarelli, attore di teatro, tv e cinema, classe 1974, nato a Bozzolo in provincia di Mantova, formatosi a Milano al Piccolo Teatro di Giorgio Strehler, ha alle spalle tanti anni di teatro di prosa con maestri quali Glauco Mauri con cui, tra le altre cose,  interpretò un mirabile Ariel ne La Tempesta di William Shakespeare, Giorgio Albertazzi, film per il cinema, poi la svolta nel 2003, e la notorietà televisiva, con lo sceneggiato Orgoglio, al fianco di Elena Sofia Ricci, in onda su Rai Uno e da lì tante altre fiction: Il Bello delle Donne, Incantesimo, Cinecittà, Don Matteo, La Squadra.

Negli ultimi anni lavora spesso all’estero con produzioni internazionali, indiane e inglesi. Di recente è stato insignito del premio della giuria al ‘’Terra di Siena International Film Fest’’ per la sua interpretazione nel docufilm ‘’Un Mistero Gabino’’. A fine novembre volerà a New York per condurre la serata evento ‘’Callas Tribute Prize NY’’ dedicata alla grande Maria Callas.

La voce di Bocciarelli, flautata e con una dizione perfetta, ben timbrata come se ne sentono poche in Italia al cinema, evoca suggestione e poesia, sembra che nella vita fosse vocato all’arte e quando glielo domandiamo risponde recitando i celebri versi tratti da Il Sogno di August Strindberg:

‘’Cos'è la poesia? Non è la realtà, ma più della realtà... Non è un sogno, ma sognare da svegli’’.

Come ti sei avvicinato alla recitazione e quando hai capito che sarebbe stata la tua professione?

Mi folgorò l’Orlando Furioso per la regia di Luca Ronconi. Rimasi completamente rapito da questo universo quasi onirico, dalla levità con la quale si muovevano i personaggi sulla scena, tutto mi riconduceva a dei sogni della mia infanzia e da lì ho trovato un punto di contatto tra il mondo onirico della mia infanzia e il mondo che raccontava Ronconi attraverso quel fantastico spettacolo con grandi attori, come Mariangela Melato.  Ronconi, quindi, è stato il primo a far scaturire in me la scintilla del teatro, però poi sono arrivato a Giorgio Strehler. Due figure chiave del teatro italiano, e non solo, del Ventesimo secolo. Ho iniziato da ragazzino a Siena a muovere i primi passi. Ci eravamo trasferiti, perché i miei genitori sono di Cremona, poi andarono ad abitare vicino Mantova e così sono nato nel gran ducato dei Gonzaga, per questo mi hanno chiamato Vincenzo, come Vincenzo Gonzaga che era  un amante dell’arte.

L’arte, il teatro, è un antidoto per arrestare il tempo che scorre e dunque la morte?

Bella domanda, mi hai letto dentro! È fondamentale il meccanismo catartico che ci dona l’arte, che sia il teatro oppure la pittura, io dipingo anche, ho esposto in varie gallerie. Un meccanismo nel quale dovremmo nuotare noi artisti invece di appesantirci con questioni politiche. Dovremmo essere degli strumenti dell’arte per donare al pubblico la catarsi e farlo sognare, far loro dimenticare il tempo e la morte, neutralizzare i dolori, le ingiustizie, come facevano gli antichi greci creando un legame con il sacro che, invece, si sta perdendo. La mancanza di questo legame fa diventare lacunosa l’arte, perché manca l’eternità e bisogna ritrovarla, come scriveva Rimbaud:’’ È ritrovata. Che cosa? L’Eternità. È il mare andato via Col sole’’.  L’arte è soprattutto depositaria di eternità, di infinito. È qualcosa di metafisico che trascende la realtà, è una connessione sacra. La sacralità dell’arte è la sua peculiarità.

Dal sacro al profano. Del teatro in Italia si dice che sia morto, del cinema anche, della tv e le fiction che siano di scarsa qualità. Che cosa ne pensi?

In Italia manca il giusto compromesso tra il marketing, il business, e la qualità. Non scarseggeranno mai le scuole, la professionalità degli attori e di chi lavora nel cinema, nel teatro. Purtroppo, non c’è equilibrio tra marketing e qualità. Mi spiego.  Da una parte abbiamo la ricerca artistica, talvolta fine a se stessa e un compiacimento intellettuale, dall’altra parte c’è il mero prodotto commerciale senza qualità, non c’è mai un cinquanta e cinquanta. Lavorando spesso all’estero, invece, vedo che si riesce comunque a proteggere la qualità non disdegnando il marketing, il prodotto di larga diffusione, e ciò che ama il pubblico. Credo che si dovrebbe ascoltare di più il pubblico che, al contrario di quel che si pensa, è diventato più preparato, più colto, più esigente, non bisogna mai sottovalutarlo, si tende sempre a pensare che sia una massa informe, povera di discernimento artistico.

Non bisogna mai prendersi troppo sul serio, se uno rispetta l’arte, la cultura, e la fa propria, non deve sottolineare, non deve ostentare e far pesare agli altri quello che sa e che è. Bisogna avvicinare i giovani alla poesia, al teatro. Il rapporto con la parola è importante, affascinante, si dovrebbe accompagnare il pubblico verso la parola, la letteratura, il teatro. Le persone ti sorprendono, a volte proprio quelle più semplici, meno colte, perché sono senza sovrastrutture e più aperte ad assimilare l’arte, a farsi abbacinare dall’arte senza pregiudizi.

La politica che ruolo ha nell’arte?

Un problema prioritario è quello che, se lo Stato aiuta, deve garantire la distribuzione del prodotto. Invece, spesso accade che molte produzioni prendano finanziamenti, facciano dei film e poi non c’è l’investimento nella distribuzione e nella promozione, che sono molto costosi. Così i produttori intascano soldi ma i film non escono, sia al cinema che in tv. Per esempio, a me capitò che la fiction della Rai, Cinecittà, per tanti anni rimase nel cassetto, poi per fortuna venne mandata in onda.

Cosa pensi dell’attuale stato della politica in Italia?

La schizofrenia è entropica sia in politica che nell’arte, ci sono dei meccanismi assurdi, la realtà sta superando la finzione. Temo che si arrivi a un’esplosione dell’animo umano. La gente sta male, serpeggia un grande malessere. Bisogna mescolarsi tra le persone per ascoltare cosa hanno da dire e percepire il loro dolore e la loro rabbia.  Non c’è una continuità nella politica e, oltre a creare problemi di stabilità economica, sociale, non si ha il tempo di capire.

C’è un uomo politico italiano che ti piacerebbe interpretare, una personalità che ti incuriosisce di cui vorresti realizzare una biopic?

Ho ancora tatuata nella mia mente l’uccisione di Aldo Moro, una figura che mi ha sempre affascinato. Non esistono più politici di quel calibro. Era un’Italia, quella degli anni Settanta, difficile, piena di ombre, ma la politica e la classe dirigente politica che ci rappresentava erano una spanna sopra a quella attuale. Aldo Moro era un uomo di enorme spessore umano, culturale e di grande spiritualità. In realtà, mi piacerebbe realizzare un film dal punto di vista del figlio di Silvio Berlusconi, Piersilvio, una sorta di ‘’Affabulazione’’ pasoliniana. Come può vivere e trovare la sua strada il figlio di un uomo così potente. Mio padre non è Berlusconi, ma è dello stesso anno di nascita, 1936, e quegli uomini con quella tempra o li uccidi in senso edipico oppure ne resti prigioniero tutta la vita.

A te cosa è accaduto?

Recentemente, trasformandomi da figlio in padre di mio padre, a causa del fatto che è anziano e che è stato piuttosto male, ho superato questo peso edipico. Da ragazzo subivo totalmente il suo fascino. Sai, un padre di sei figli, un imprenditore solido, pieno di carattere. Non è stato facile per me.

Perché lavori così tanto all’estero e poco in Italia?

Perché lassù qualcuno mi ama senza raccomandazioni, sono raccomandato solo dal cielo. Sono stato scelto fra migliaia di attori in tutto il mondo per girare una saga, Professor Dinkan 3D, prima abbiamo girato a Bangkok, qualche settimana fa, poi andremo in India, è una produzione indiana, Dileep è il protagonista, il più grande attore indiano. È un’esperienza straordinaria per me.

Sto lavorando anche con la Movie On, ho fatto già un film, Mission Possible, con John Savage, adesso un altro sempre con loro, Dog of Christmas. Sono film acquistati anche dalla Rai, è una produzione inglese e distribuiscono in 60 paesi nel mondo, la sede è a Londra. Recito in inglese in presa diretta e poi mi doppio in italiano.

La cosa che non mi spiego è che ho dato molto alla Rai: Orgoglio, tre serie 36 puntate, Un caso di coscienza, Incantesimo, Cinecittà, Don Matteo, non dico che debba fare sempre ruoli importanti però adesso lavoro fuori dall’Italia; purtroppo  sono fasi della vita.

Dei tuoi colleghi attori che idea ti sei fatto?

Il mestiere dell’attore è una costante ricerca, anche dentro noi stessi. Bisogna continuare a studiare, mai smettere. È necessario mantenere vivo il senso critico nei confronti dell’arte, del cinema, del teatro, per impedire che i nostri occhi si abituino a qualcosa che non è straordinario ma ordinario, che l’occhio e il gusto si vizino, perché è facile cadere nei cliché. Sto rivedendo tutti i film con Anna Magnani, la più grande attrice di tutti i tempi. Quando si pensa che oggi l’attrice considerata la numero uno, Meryl Streep, che è una bravissima attrice, non ha nemmeno un centesimo dell’immensità di Anna Magnani, forse si sta perdendo qualcosa. E sto parlando della Streep che comunque sulla piazza è la più brava, pensa al resto. La Streep confrontata con la Magnani non è nessuno. Non perdiamo di vista la grandezza di un’artista irraggiungibile come la Magnani, chi ne beneficia siamo noi e se smarriamo l’Arte siamo perduti.

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