Poesia, a Ceglie Messapica il commosso ricordo di Pietro Gatti

Il 2 marzo scorso a Ceglie Messapica è stato ricordato il grande poeta locale Pietro Gatti con un seminario, in cui non sono mancati i momenti musicali, a cura dell'Ensemble la Vaga Harmonia (qui il reportage di Alessandra Peluso con tutti i dettagli sulla serata, e qui lo speciale sulla poesia di Gatti, della stessa Peluso).
Presente, tra gli altri, anche il direttore di Affari Angelo Maria Perrino, che è stato salutato da Mimma, la figlia di Gatti, nel suo commosso intervento.
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Di Gatti l'editore salentino Manni ha pubblicato tutta l'opera in due preziosi volumi, a cura di Donato Valli. E Affaritaliani.it qui di seguito pubblica l'intervento di Mimma Gatti contenuto nel primo dei due volumi, dal titolo "Padre amatissimo".
PADRE AMATISSIMO
di Mimma Gatti
Dire del proprio padre non è facile. Si rischia di farne un ritratto agiografico o di spettacolarizzare i sentimenti. Cercherò di evitare l’una e l’altra cosa.
Chi era Pietro Gatti nel privato? Una persona dalla scorza introversa, ma capace di entrare in comunicazione con gli altri, di ridere, di affrontare temi seri e scherzosi. Lui stesso dice di sé: “Me piasce a ssende fattariedde ca fascene rite, ma na ssacce cundà ca fatte amare i cca fascene chjange”. In famiglia aveva un innegabile e forte carisma, ma lasciava agli altri grandissimi spazi di autonomia. Rispettava enormemente la fede e la pratica religiosa della moglie, non ha mai forzato le mie decisioni. Non giudicava, accettava le scelte altrui anche quando non le condivideva. Questo non vuol dire che se ne disinteressasse, anzi era sempre presente con discrezione e sensibilità. Ad occuparsi della gestione familiare, della mia educazione era mia madre. Mio padre però veniva da lei messo al corrente di tutto, conosceva le mie marachelle e interveniva quando necessario con un semplice rimprovero che sortiva immediatamente gli effetti voluti.
È stato da sempre un padre amatissimo. Alla domanda sciocca e imbarazzante che si usava rivolgere ai bambini: “A chi vuoi più bene, a mamma o a papà?”, la mia risposta era una sola: “A papà”. Mi rivedo bimba di pochi anni e poi più grandicella, fare con lui lunghe passeggiate parlando di tante cose, giochi, amiche, scuola, letture (nelle quali mi seguiva in modo puntuale evitando accuratamente i fumetti) e lui mi raccontava di sé, del mondo e dei personaggi della sua infanzia. Anche il lavoro che faceva, era vicesegretario comunale, lo metteva in contatto con la gente e i problemi delle persone. Quanti i casi di malattia, di povertà, di grave disagio sociale, di figli emigrati in Sud America e poi spariti… e i tempi erano ben diversi da oggi.
Mio padre ha sempre improntato la sua vita a due valori fondamentali: il rifiuto dell’ingiustizia e il rispetto incondizionato verso gli altri, chiunque essi fossero e comunque la pensassero. Soprattutto gli umili, gli indifesi, i deboli (quelli che poi saranno le sue creature poetiche) catturavano la sua attenzione e a loro offriva spontaneamente aiuto durante il suo lavoro e fuori dal lavoro. Ricordo che una volta, facendo grandemente preoccupare mia madre, dopo le ore di ufficio tornò a casa con molto ritardo. Era d’estate ed eravamo in campagna. Lui, poco provetto guidatore, percorrendo la strada in macchina, si era fermato alla vista di una famigliola, a lui sconosciuta, a piedi e con un figlio disabile. Gli dissero che erano diretti a Pascarosa, una frazione di Ostuni ad una decina di chilometri di distanza, per incontrare un famoso guaritore dell’epoca, se non sbaglio Seppe u Padreterne. Guaritori, maghi ed affini non erano propriamente nelle simpatie di mio padre che li considerava in qualche modo profittatori della credulità popolare, ma non ci pensò due volte ad accompagnarli a destinazione.
Mio padre era una persona estremamente tollerante, ma quello che proprio non sopportava era la violenza e la prepotenza, la sopraffazione quindi del forte ai danni del debole. Ricordava, per la verità con un certo dispiacere e vergogna per la sua eccessiva severità, quando durante la guerra, incaricato della distribuzione di tessere annonarie, aveva sbrigativamente ingiunto a suo padre di aspettare il proprio turno in fila con gli altri. Era esigente con se stesso e con gli altri, nel lavoro soprattutto. Compiere il proprio dovere era uno stile di vita. Non ricordo mai un suo consistente periodo di ferie dal lavoro, solo qualche giorno sporadico. Nei momenti di maggior impegno, durante le consultazioni elettorali, era capacissimo di non tornare proprio a casa. E allora mia madre gli mandava in ufficio qualcosa da mangiare: latte e frutta. Non sopportava il lavoro fatto male, con disattenzione e pressappochismo. Ricordo un mio quaderno (lui abitualmente correggeva i miei esercizi di latino) volare all’altro capo della stanza perché, ragazzina di seconda media, avevo scritto un terribile “potebam” invece di “poteram”.
Come trascorreva mio padre il tempo libero? Nelle ore serali, magari dopo un solito pomeriggio di lavoro straordinario al Comune, gli piaceva incontrare in piazza e nell’edicola di Lillino Nannavecchia gli amici di sempre, Armando Rottola, Sandrino Magno, Michele Castellana, Cosimo Epicoco… e poi andava al cinema, lo amava molto. Amava anche ascoltare musica, musica classica. Il suo autore preferito era Mozart. Ma in ogni ritaglio di tempo, i giorni di vacanza, prima di addormentarsi, la notte durante un risveglio, leggeva. Era un divoratore di libri. Ne comprava a bizzeffe, talvolta portandoli a casa di nascosto o scaglionati nel tempo per sfuggire alle rimostranze della moglie, visto che gli acquisti incidevano considerevolmente sul bilancio familiare. L’unico suo vezzo era rappresentato dall’amore per l’eleganza. Comprava buoni tagli di stoffa (che il più delle volte nascondeva nella libreria, dietro pile di libri, tirandoli poi fuori uno alla volta per farsi confezionare un abito dal sarto di fiducia) e scorte di belle cravatte di seta. Ancora oggi ne conserviamo scatole intere.
Dopo che fu andato in pensione iniziò a scrivere poesie e potette finalmente dedicarsi alla lettura anima e corpo. Un libro accompagnava ogni momento della sua giornata. Foderati con carta da pacchi o semplicemente con un foglio di giornale per non sciuparli, erano tra le sue mani mentre trascorreva le mattinate in poltrona tenendo compagnia alla moglie costretta in carrozzella, o mentre passeggiava in campagna o nella casa di Ceglie in terrazza, o finanche mentre pedalava sulla cyclette per fare esercizio fisico. Un libro stava di notte sotto il suo guanciale, pronto per l’uso. Un libro lo accompagnava lì al “fondo”, dinanzi al trullo, il suo regno, dove amava trascorrere gran parte della giornata quando eravamo in campagna. Un libro era sempre lì accanto a lui sul divano, solo per essere accarezzato, quando negli ultimi anni della sua vita la malattia, devastante, gli aveva tolto anche la possibilità di leggere. E in quegli anni di malattia, accettata sempre con dignità e forza d’animo, mi confessò una volta che per far passare il tempo ripassava a mente le tante poesie che conosceva a memoria, soprattutto l’amato Pascoli.
E poi c’è stato l’affetto a riempire le sue giornate. Quando le sue condizioni di salute si aggravarono ci disse un giorno: “Vedendo vivere voi, vivrò un po’ anch’io”. Ha voluto molto bene, ricambiato, a mio marito che per tanti anni, con piacere e con sollecitudine, lo ha accompagnato ad incontri culturali e gli ha battuto a macchina (il computer non era ancora di uso comune) tutte le sue poesie. È stato un nonno affettuosissimo, senza mai mostrare predilezione per l’uno o l’altro dei suoi nipoti. Non ha mai esternato i suoi sentimenti in modo plateale o con parole roboanti, ma sempre con gesti delicati, teneri, pudichi, con attenzione continua e con generosità. Tutti noi gli siamo grati per l’esempio di umanità e di coraggio che ci ha dato, giorno dopo giorno.
Quanto a me, ho nostalgia della sua presenza fisica, del punto di riferimento che rappresentava nella mia vita. Chiederò a papà, ne parlerò con papà, erano frasi e pensieri ricorrenti. Ricordando l’affettuosa ironia con cui condividevamo la concezione della vita ultraterrena, fondata più sulla speranza che sulla fede, sono convinta che un giorno, a cavalluccio di una nube, ci incontreremo. E allora te ne dirò di cose, ti racconterò, per esempio, tutta la storia della pubblicazione di quest’Opera Omnia e sarai contento che finalmente Ceglie si è ricordata di te. Arrivederci, papà.
(pubblicato per gentile concessione dell'editore)