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Trifone Gargano: Dante, Maometto e la tempesta nel deserto

Anche Affaritaliani.it - Puglia ha deciso di celebrare i 700anni dalla morte di Dante Alighieri, dedicando ogni week-end questo spazio per la pubblicazione di lavori ad opera di dantisti pugliesi o di autori, i cui articoli sono ispirati all’influenza del Somma Poeta sulla realtà pugliese in particolare o quella italiana in generale.

Trifone Gargano3

Dopo l'esordio in accoppiata con Mina, i riflettori accesi su Netflix con la fiction di successo con Sabrina, e le incursioni ne "La casa di Jack" di Lars von Trier, l'incontro con Harry Potter nella saga di Joaanne K. Rowling; l'avventura tra i twitter fulminanti delle terzine di dantesca memoria, l'esplorazione dell'influenza del Sommo Poeta nella prosa contemporanea; e dopo l'incursione dantesca nel mondo del giallo e l'approdo in Sicilia negli intrighi di nino Motta, e il viaggio tra le pagine dei libri di Eraldo Affinati e Giulio Ferroni, l'ttenzione di Trifone Gargano (Pugliese, Docente Didattica Lingua Italiane e Informatica per la Letteratura, nonché dantista e divulgatore letterario) si sposta sulla polemica letteraria accesa da Arno Widmann. (ag)

Dante Widmann

di Trifone Gargano

In concomitanza con il 25 marzo 2021, secondo anno del "Dante dì", per lo Stato italiano, e avvio solenne, in tutto il mondo, delle celebrazioni per i 700 anni che ci dividono dalla morte del poeta Dante Alighieri (1321), con manifestazioni che sarebbe (quasi) impossibile riferire, per la quantità, la varietà e la qualità delle stesse, è scoppiata pure una polemicuccia che, in gergo giornalistico, può essere ben definita come la classica "tempesta in un bicchier d’acqua".

Ecco i termini della querelle: una prima lettura, piuttosto frettolosa, di un articolo del critico letterario tedesco Arno Widmann, avrebbe fatto gridare allo scandalo, perché in esso Dante sarebbe stato definito «arrivista e plagiatore», e, quindi, di conseguenza, tutti noi italiani avremmo avuto ben poco da festeggiare, tributandogli onori e benemerenze, evidentemente, non meritate.

Widmann

Una seconda lettura più meditata dell’articolo del critico tedesco, ha fatto sgonfiare la polemica, in quanto, Widmann, all’interno di un ragionamento (piuttosto pedante e, mio giudizio, anche vecchio, visto che, in sede critica, della cosa se ne discute da più di cento anni) sulla poesia medievale europea (provenzale e italiana), si fa riferimento alle tesi sostenute, già nel 1919, appunto, da Miguel Asín Palacios (nel libro Escatología musulmana en la Divina Comedia), sui rapporti, se non proprio sulle dipendenze del poema dantesco da tutta una serie di racconti arabi di viaggi nell’aldilà, compreso quello del miʿrāj, che narra, cioè, l’ascensione al cielo del profeta Maometto (nei sette cieli, cavalcando un animale magico, il burāq).

Palacios

Miguel Asín Palacios (1871-1944) è stato accademico spagnolo, e il suo libro, al tempo, fu, sostanzialmente, respinto, un po’ per implicazioni, come dire, ideologiche, che la tesi della diretta dipendenza del poema dantesco da una serie di racconti arabi sull’aldilà implicasse, e un po’ perché lo stesso studioso non riuscì a dimostrare la conoscenza diretta, da parte di Dante, di questi racconti (in particolare, il Libro della Scala).

Suggestivi, comunque, alcuni raffronti tra le due opere che Asín Palacios avanzava:

- supplizi veduti da Maometto, e le pene descritte da Dante per l’Inferno

- gallo gigantesco veduto da Maometto, nel primo cielo, e la grande aquila descritta da Dante, per il cielo di Giove (il sesto)

- triplice abluzione di Maometto, e la duplice purificazione di Dante, nelle acque, rispettivamente, del Letè, e dell’Eunoè, in Purgatorio.

L’opera di Dante, la Comedìa, successivamente nota come Divina Commedia, è (e resta) innanzitutto un’opera letteraria. Ribadito questo, occorre chiedersi cosa siano le «fonti» per un poeta. Come le api, che girano di fiore in fiore, in cerca di polline, danno poi vita al miele, che dipende da quel polline, ma non è più il polline, bensì qualcosa di nuovo. Alla stessa maniera, i poeti leggono altri testi (coevi o no), e producono poi qualcosa di nuovo, che, indubbiamente, dipende da quei modelli letti, ma che non si identificano con essi. La Comedìa dantesca è un’opera (molto) complessa, il problema delle sue fonti (i suoi modelli letterari), quindi, va inquadrato in una rete, in una pluralità di tradizioni, riferimenti, culture, stimoli, letture, che, tutte quante, hanno agito su Dante. Provo a fare un elenco (sommario):

- modello allegorico, della letteratura didattica medievale

- modello morale, della letteratura devozionale, e della stessa Etica di Aristotele (riletta in chiave cristiana)

- modello del Tesoretto di Brunetto Latini

- modello classico (Omero, Virgilio, per il tòpos della discesa agli Inferi; ma anche Ovidio, e altri autori della tradizione latina)

- modello cavalleresco (per il tòpos del viaggio come ricerca personale)

- modello enciclopedico (recuperare e re-interpretare in chiave cristiana la cultura classica)

- modello biblico (Antico e Nuovo Testamento)

tre Scritture

- modello teologico-filosofico

- modello delle visioni

- modello dei viaggi nell’aldilà (tra i quali, appunto, il Libro della Scala, poemetto arabo-spagnolo; ma anche la Navigazione di san Brandano; la Leggenda del purgatorio di san Patrizio; il Liber figurarum; il Libro delle tre scritture; il De Jerusalem celesti e il De Babilonia civitate infernali; per citarne solo alcuni).

Qui, suggerisco la lettura di due romanzi d’impianto dantesco, che hanno posto il problema del rapporto tra il Libro della Scala e la Divina Commedia.

Hafez Haidar, Il viaggio notturno del Profeta, Piemme, Casale Monferrato (AL) 2008

In una «dolce serata autunnale» del suo esilio veronese, Dante, rapito da pensieri nostalgici, su Beatrice e sulla sua precedente vita fiorentina, riceve l’inaspettata visita di un misterioso frate di nome Francesco, di ritorno da Toledo, che chiede di parlargli con una certa urgenza, per importanti rivelazioni da fargli. Il frate rivela a Dante che di lui gli avevano parlato sia Brunetto Latini, sia Bonaventura da Siena. Dante, piuttosto diffidente, per via dell’ora di quell’inaspettata visita, per via della circostanza dell’incontro, e anche per le insistenze del frate, affinché lo ricevesse, gli risponde con alcune domande indagatorie sul conto di Brunetto Latini, in modo da esser certo di non trovarsi di fronte a un millantatore, se non, peggio, a un pericoloso imbroglione (o spione).

Haidar

Sciolte le riserve, Dante, finalmente, invita il frate a entrare in casa, e lo abbraccia con commozione. Dopo aver mangiato qualcosa, frate Francesco rivela al poeta il motivo di tanta fretta, nel reclamare, con insistenza, la visita: egli deve parlargli, infatti, della traduzione dall’arabo, a opera di un suo amico toscano, di un testo arabo antico, Il viaggio notturno di Maometto, che narra, per l’appunto, del viaggio effettuato da Maometto, in una sola notte, dalla Mecca a Gerusalemme, e da Gerusalemme al settimo cielo, in Paradiso.

Inizia così il romanzo di Hafez Haidar, che ha, tra l’altro, pure il pregio di riportare integralmente, attraverso il racconto orale che ne fa frate Francesco a Dante, il testo del Viaggio notturno di Maometto. Occorre, comunque, dire che, complessivamente, il romanzo di Haidar, in molte parti, risulta piuttosto fiacco, da un punto di vista narrativo, perdendosi, cioè, in pagine e pagine ridondanti di mera biografia del poeta Dante Alighieri; ma anche con banali riscritture di episodi biblici; o, ancora, la sintesi, piuttosto fedele, ma scolastica, del viaggio dantesco nell’aldilà, senza elaborare una trama degna di questo nome, capace di catturare il lettore, di incuriosirlo.

Il valore dell’opera di Hafez Haidar sta, dunque, quasi tutto nell’affrontare la questione, spinosa e dibattutissima, dei rapporti tra Dante e la cultura islamica, e, quindi, il problema (dei problemi) delle fonti della Divina Commedia, viste le sorprendenti analogie, le somiglianze, e le vere e proprie sovrapposizioni testuali e situazionali, che si riscontrano tra il poema dantesco, e questo misterioso testo arabo del VII secolo, al-Isra’ wal-Mi ‘rāg, redatto da Abdallah Ibn al-Abbàs (e qui offerto, da Haidar, in traduzione integrale, per la prima volta, dall’arabo in italiano).

Maometto Commedia

Verso la fine del romanzo, si fa pure riferimento a san Paolo, e al privilegio a lui accordato da Dio del "rapimento" in Paradiso, fino al terzo cielo (così come chiunque lo volesse potrebbe leggere nella sua seconda Epistola ai Corinzi). Unico, prima di Dante, tra tutti gli altri mortali, a ottenere questo privilegio di ascendere (da vivo) in Paradiso.

Dante, infine, ripresosi dall’incredibile esperienza di quella notte, oramai solo, mosso dal desiderio di scrivere su tutto ciò che aveva visto durante il viaggio ultraterreno, s’impegna, preliminarmente, a risolvere la delicata questione della collocazione oltremondana di Maometto, decidendosi, com’è noto a tutti, di piazzarlo tra i seminatori di discordie, in una delle zone più nere e cupe del suo Inferno (così come si legge nel canto XXVIII del poema), non foss’altro, per non correre il rischio di passare per eretico (o per filo-islamico), se solo avesse immaginato, per Maometto, una diversa collocazione, per esempio, tra gli spiriti magni del Nobile Castello, dove pur figurano altri musulmani. Se non, addirittura, in Paradiso.

L’autore del romanzo, infatti, ricorda al lettore, con opportune citazioni dal canto IV dell’Inferno, che altri musulmani avevano ricevuto da Dante un più benevolo trattamento: si pensi al Saladino, il grande e valoroso condottiero arabo, colui, cioè, che aveva conquistato Gerusalemme; oppure, ai filosofi Avicenna e Averroè. Tutti collocati, costoro, nel Limbo, all’interno del «nobile castello», luogo certamente infernale, ma nient’affatto di sofferenza e di tormento (specie se si pensa agli atroci tormenti, invece, ai quali sono sottoposti, appunto, i seminatori di discordie, dove è collocato, come ho già scritto, Maometto, ma anche Alì, suo genero, eternamente dilaniati nel corpo dai diavoli).

Coviello

Michelangelo Coviello, Inferno 28, La Vita Felice, Milano 2009

Carlo Montero vive a Milano, dove è docente universitario di «Scrittura creativa», ma è noto anche come studioso irregolare di letteratura medievale, con la passione, in particolare, per la Divina Commedia (specie per i temi dell’influenza della cultura islamica su Dante, avendo individuato nel Libro della Scala una delle fonti principali del poema dantesco). A un certo punto della sua disordinata vita, comincia a ricevere strane e-mail, a firma di un misterioso quanto sconosciuto Lapo.

E-mail che contengono lunghi e inquietanti racconti, che il prof Montero, inizialmente, scambia per il frutto di ardite esercitazioni letterarie, di uno dei suoi studenti universitari del corso di scrittura creativa, che, evidentemente, aveva scelto di firmarsi "Lapo", geloso, evidentemente, di mantenere l’anonimato. Solo successivamente emergeranno alcuni indizi di questa intricata vicenda spionistica, a sfondo filologico-religiosa, che sta per coinvolgere il prof Montero. Per esempio, a un certo punto, Montero trova accreditata sul suo conto corrente, inspiegabilmente, la somma di ben 28 mila euro, da parte di ignoti. In realtà, il versamento gli giunge da Roma, per volontà del Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, un tal fra’ Olivier d’Orange, che giustifica il bonifico come pagamento anticipato per una delicata missione che lo stesso Gran Maestro intende affidargli. Montero prenota un volo per Roma, con l’intenzione di restituire i soldi al Gran Maestro, e sciogliersi, quindi, da qualsiasi forma di vincolo professionale, o di semplice consulenza, con l’«Ordine dei Cavalieri di Malta», visto che, l’Ordine, unilateralmente, gli aveva accreditato i soldi, assegnandogli, di fatto, un incarico.

Maometto Buraq 2

In realtà, egli è stato scelto, da parte del Gran Maestro, perché Montero, in una pubblica conferenza su Dante, aveva sostenuto, nella sua relazione, una tesi tanto bizzarra, quanto suggestiva, e cioè che la Divina Commedia, nella sua versione originale, fosse composta da 99 canti, e non da 100, come tutti sanno (e come è), sostenendo che questa scelta (numerologica) dantesca fosse motivata per diverse serie ragioni, e di carattere simbolico, numerologico, lessicale, religioso:

"99 sono i cori angelici; 99 sono i nomi di Dio secondo la Cabala ebraica, l’islam e la chiesa cattolica; 99 sono gli attributi di Maometto […]" [p. 8];

precisando, inoltre, che, in Inferno XXVIII, Dante

"nomina per la prima e unica volta la parola contrappasso come ulteriore indizio islamico perché la regola del contrappasso era quella dei poemi religiosi islamici, del Libro della Scala di Maometto per condannare i peccatori" (p. 129).

Nella sua conferenza dantesca, il prof Montero, per sostenere questa sua (bizzarra) tesi, aveva fatto ricorso esplicitamente anche agli studi dello spagnolo Miguel Asín Palacios, incentrati proprio sui rapporti e sull’influenza tra la cultura islamica e la Divina Commedia di Dante Alighieri.

Giunto a Roma, però, il prof Montero non riuscirà a rinunciare alla missione affidatagli dall’«Ordine dei Cavalieri di Malta», e, invece, si troverà al centro di un feroce scontro tra l’«Ordine» stesso e alcune settori della Chiesa cattolica; in particolare, con un padre gesuita, tal monsignor Gatti (per altro, acerrimo nemico del Gran Maestro dell’«Ordine», fra’ Olivier d’Orange). 

Dante 21

L’«Ordine dei Cavalieri di Malta», infatti, custodisce da secoli una copia manoscritta del canto 28 dell’Inferno, il canto in cui Maometto è collocato nella nona bolgia dell’ottavo cerchio, tra coloro che in vita hanno seminato discordia, e hanno provocato scismi religiosi. Dante e Virgilio, dal ponte della nona bolgia, vedono passare i seminatori di discordie e gli scismatici, orrendamente mutilati dalla spada di un diavolo:

"E tutti li altri che tu vedi qui,

seminator di scandalo e di scisma

fuor vivi, e però son fessi così" [If. XXVIII, 34-6]

La suggestiva tesi (critica) che il romanzo di Michelangelo Coviello sostiene è che questo canto XXVIII dell’Inferno, non fosse presente, originariamente, nella primitiva stesura del poema dantesco, ma che solo successivamente fosse stato aggiunto, da parte di Dante (non di altri), con l’intenzione di collocare Maometto (e di suo genero Alì) tra i seminatori di discordie, in quanto egli sarebbe stato forzato a farlo, in qualche modo, dalla Chiesa cattolica: 

Dante

"Tra le gambe pendevan le minugia;

la corata pareva e ‘l tristo sacco

che merda fa di quel che si trangugia

[...]

vedi come storpiato è Maometto!

Dinanzi a me sen va piangendo Alì,

fesso nel volto dal mento al ciuffetto" (If. XXVIII, 25-7 e 31-3).

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Pubblicato in precedenza: Trifone Gargano, l’Italia di Dante, secondo Eraldo Affinati e Giulio Ferroni

                                             Trifone Gargano e l'intrigo di un giallo dantesco siciliano

                                             Trifone Gargano, "Dante indaga" nel ciclo di Giulio Leoni

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