Caso Shalabayeva, tutti assolti a Perugia

Scagionati funzionari e dirigenti della Polizia di Stato. La sentenza di primo grado li aveva condannati per sequestro di persona

(Fonte: IPA)
Cronache
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Caso Alma Shalabayeva, la corte d’appello di Perugia assolve gli imputati: “Il fatto non sussiste”

Dopo quasi dieci ore di camera di consiglio, la corte d’appello di Perugia ha assolto i sette imputati per l’espulsione di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, e la figlia Alua. Il collegio, presieduto da Paolo Micheli, ha deciso che “il fatto non sussiste” per il capo dell’ufficio immigrazione della questura di Roma, Maurizio Improta, con i suoi funzionari Vincenzo Tramma e Stefano Leoni, il capo della Mobile, Renato Cortese, i funzionari dello stesso ufficio, Luca Armeni e Francesco Stampacchia, e il giudice di pace Stefania Lavore.

Alma Shalabayeva viene fermata il 28 maggio 2013, insieme alla figlia di 6 anni, mentre si trovava in una villa a Casalpalocco, alle porte di Roma. Le forze dell’ordine cercavano il marito, Mukhtar Ablyazov, dissidente kazako, ricercato per diversi reati. Alma, trovata in possesso di un passaporto falso, viene espulsa il 30 maggio 2013. Sarà riportata in Italia, poi, una volta esploso il caso, il 24 dicembre dello stesso anno.

Nel frattempo, emerge che Alma Shalabayeva, essendo moglie del dissidente kazako, in patria è a rischio della vita. Sulle procedure effettuate per la sua espulsione si crea un caso internazionale e viene aperta un’inchiesta che approda alla Procura di Perugia. Coinvolti l’allora capo dell’ufficio immigrazione della questura di Roma, Maurizio Improta, con i suoi funzionari Vincenzo Tramma e Stefano Leoni, il capo della Mobile, Renato Cortese, i funzionari dello stesso ufficio, Luca Armeni e Francesco Stampacchia, e il giudice di pace Stefania Lavore.

L’inchiesta si muove sull’ipotesi di sequestro di persona per Cortese, Armeni, Stampacchia, Tramma, Leoni e Improta, e per ipotesi di falso a carico di tutti gli indagati.  Il 14 ottobre 2020, il Tribunale di Perugia, in primo grado, condanna a cinque anni di reclusione Renato Cortese, Maurizio Improta, Luca Armeni e Francesco Stampacchia, mentre Vincenzo Tramma e Stefano Leoni vengono condannati, rispettivamente, a 4 anni e tre anni e mezzo. Due anni e sei mesi la condanna per l’allora giudice di pace Stefania Lavore. Gli imputati, ad eccezione del giudice di pace, sono stati riconosciuti colpevoli anche del reato di sequestro di persona.  Per il Tribunale di Perugia, si era trattato di un “rapimento di Stato”. 

Corrette, invece, le procedure secondo il Viminale. Sarebbe preferibile definire “un crimine di lesa umanità realizzato mediante deportazione”, “un caso eclatante non solo di palese illegalità - arbitrarietà delle procedure seguite dalle istituzioni italiane, ma, soprattutto, una ipotesi di patente violazione dei diritti fondamentali della persona umana”: così i giudici nelle motivazioni della sentenza.

Il 17 gennaio 2022 si è aperto il processo d’appello. I giudici hanno accolto la richiesta delle difese di riaprire il dibattimento sentendo l’allora procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, e il pm Eugenio Albamonte e l’allora procuratore aggiunto, Nello Rossi.  A conclusione dell’istruttoria, lo scorso 14 aprile, la Procura Generale di Perugia ha chiesto condanne a 4 anni di reclusione con 5 anni di interdizione dai pubblici uffici per l’ipotesi di sequestro di persona, nei confronti di Renato Cortese e Maurizio Improta, quattro anni per Francesco Stampacchia e Luca Armeni. Due anni e 8 mesi di reclusione per Vincenzo Tramma e l’assoluzione per Stefano Leoni e per il giudice di pace, Stefania Lavore. Per tutti gli imputati la Procura generale ha chiesto l’assoluzione dai reati di falso perché prescritti. L’assoluzione dei loro assistiti, al contrario, era stata chiesa dalle difese degli imputati, sottolineando la correttezza dell’operato in relazione al quadro che, al momento delle decisioni prese, era a loro disposizione.

 

 

 

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