Vialli: una lezione su vita, morte, cancro, malattia e metafore giornalistiche

Il testamento morale dell'ex campione: “Io con il cancro non ci sto facendo una battaglia, perché non credo che sarei in grado di vincerla" - VIDEO

L'opinione di Lorenzo Zacchetti
Vialli con la splendida moglie Cathryn
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Ecco perché titoli come "la battaglia contro il cancro" vanno aboliti

 

Noi cittadini della civiltà digitale abbiamo strane abitudini. Parliamo il meno possibile della morte, che pure ci riguarda tutti, ma quando tocca a un personaggio famoso esplodiamo in un tripudio di post sui social, applausi al funerale e auspici che il caro estinto diventi “santo subito”. Anzi: tutto subito, così poi si volta pagina e si pensa ad altro.

Sarebbe davvero un peccato che ciò si ripetesse anche con Gianluca Vialli, la cui scomparsa ha commosso proprio tutti. Nel suo caso, la sua eredità è fatta di tanti ricordi da custodire, ma anche di una lezione finale che è opportuno metabolizzare.

L'ex calciatore ci ha infatti lasciato una riflessione importante sul linguaggio che utilizziamo di fronte alla malattia: “Io con il cancro non ci sto facendo una battaglia perché non credo che sarei in grado di vincerla, è un avversario molto più forte di me. Il cancro è un compagno di viaggio indesiderato, però non posso farci niente. È salito sul treno con me e io devo andare avanti, viaggiare a testa bassa, senza mollare mai, sperando che un giorno questo ospite indesiderato si stanchi e mi lasci vivere serenamente ancora per tanti anni perché ci sono ancora molte cose che voglio fare. So che, per quello che mi è successo, ci sono tante persone che mi guardano e se sto bene io, possono pensare di star bene anche loro. Forse perché sono stato un giocatore e un uomo allo stesso tempo forte ma anche fragile e vulnerabile, quindi credo che qualcuno possa essersi riconosciuto in questo”.

 

 

 

A interrogarci dobbiamo essere in primo luogo noi giornalisti, che ormai quasi in automatico usiamo espressioni come “battaglia contro la malattia”, “guerriero”, “eroe”, “la sua partita più difficile” e, poi, quando l'interessato muore, diciamo che “si è arreso”. È davvero ora di cambiare, abolendo queste espressioni di ispirazione bellica.

L'autocritica è necessaria e la faccio io per primo, che ho ritenuto opportuna questa metafora anche nel privato, quando la malattia ha colpito la mia famiglia: una ragione di fondo c'è, perché é noto che la condizione psicologica del paziente può incidere sull'esito della cura.

Tuttavia, il problema di queste parole è che conservano un sottotesto inaccettabile, come se chi viene ucciso dalla malattia non fosse stato abbastanza forte o coraggioso per vincere la “sfida”. C'è l'ombra del giudizio che sudbolamente si infila tra le righe in cui parliamo di chi si “arrende” all'ineluttabile.

Altro che arrendersi: nel caso di alcuni tumori (come quello di Vialli, al pancreas) non ci sono nemmeno cure, per cui l'esito è scritto, si tratta "solo" di una questione di tempo. Ci sono anche malattie che invece possono essere guarite, ma per quanto ci si sforzi di rimuovere l'idea della morte dal nostro quotidiano (in altre culture invece se ne parla diffusamente), è la fine che aspetta ogni essere umano e quindi non possiamo considerarci tutti “perdenti”. Semmai, siamo tutti mortali e va ribaltato il concetto: “Non si muore perchè ci si ammala, ma ci si ammala perchè fondamentalmente bisogna morire”, come ha provato a insegnarci Sigmund Freud

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