Di Angelo Maria Perrino
Nella vexata quaestio del caso Autostrade-Benetton Giuseppe Conte, presidente del Consiglio di professione avvocato d’affari, ha portato a casa il meglio che si potesse portare a casa nell’interesse generale e alle condizioni, giuridiche e politiche, date. Qualcuno rosicherà, qualcuno la butterà in cagnara partitica, qualcuno rimpiangerà la mancata revoca, con pubblica gogna e dannazione dell’ingorda e irresponsabile famiglia Benetton.
Ma bene così, evitando il prevalere delle emozioni e la demagogia dell’uso strumentale dei 43 poveri morti di Genova, con annesso un regalo ai fratelli e cugini di Ponzano, liberati con congruo risarcimento dal peso dei loro rimorsi. L’avvocato-premier ha per nostra fortuna saputo tenere il punto, non mollare il tavolo quando sembrava ormai saltato e, nonostante una maggioranza oscillante e divisa tra furbacchioni aumma aumma e oltranzisti dal rogo facile, ha chiuso bene, all’alba di oggi, salvando capra e cavoli con uno schema di soluzione finanziario e giuridico degno del miglior studio legale.
Bene Conte, dunque, che con una splendida performance professionale e politica consolida la sua straordinaria e imprevista carriera politica. Bene l’esito finale che realizza di fatto la nazionalizzazione di Autostrade. Con un insegnamento: i settori economici strategici, le infrastrutture, i trasporti, ma anche la sanità o l’energia, devono restare nelle mani dello Stato con tanto di golden share, affidati a manager competenti e politicamente neutri. I privati hanno dimostrato di pensare solo al profitto, senza peraltro garantire quella maggiore efficienza gestionale propagandata da un luogo comune duro a morire anche davanti a tragedie come quella del Ponte Morandi, una strage figlia dell’avidità e dell’incuria di un capitalismo senza alcuna responsabilità sociale d’impresa, orientato esclusivamente alla massimizzazione dei propri utili, con relativo taglio dei costi.
Bisogna dunque cogliere l’occasione offerta dal caso Autostrade per riaprire il capitolo privatizzazioni, tornando indietro di una trentina di anni quando, sotto i colpi dell’inchiesta Mani Pulite su una politica piovra corrotta e impicciona, si pensò di cancellare totalmente la presenza dello Stato nell’economia, cedendo (e spesso regalando) direttamente ai privati colossi come Telecom, Ilva, Autostrade, le banche pubbliche dell’Iri o del Tesoro o quotandoli in borsa, come accadde per Enel ed Eni.
I protagonisti di quel colpo di mano, facilitati dalla montante furia iconoclasta figlia delle inchieste giudiziarie e cavalcata dal megafono della maggioranza dei media cosiddetti indipendenti pensarono di fare piazza pulita dei famosi boiardi di Stato, finendo però col gettare via non solo l’acqua sporca ma anche il bambino. Si chiamavano Carlo Azeglio Ciampi, Romano Prodi e Mario Draghi i campioni di quelle privatizzazioni, ma anche dell’Europa e dell’euro. Il primo è morto ed è stato santificato, gli altri due ancora operano con grande peso e carisma. Sarebbe bello sentire da loro qualche parola di autocritica. Verso il fallimento di quelle politiche pseudoliberiste e le furbate di quella classe dirigente di campioni dell’economia relazionale come Agnelli e De Benedetti, Gnutti e Colaninno, Benetton e Riva, che hanno usato le aziende ricevute per grazia e amicizia come greppie scappando poi via dopo averle spolpate e distrutte. Vedi Telecom, Ilva, Alitalia ecc.
Giriamo pagina, dunque, procedendo a ritroso nella storia e dando il bentornato al controllo dello Stato sulle autostrade. Ma meditiamo sugli errori. Per non ripeterli.
P.S.: Mi ha scritto Alessandro Di Battista: "Concordo... Oggi è un primo passo... Credimi, non era facile". E io gli ho risposto: "Lo credo bene... I prenditori con la vecchia politica si sono arricchiti... E il rigore dei Cinque Stelle è stato ingrediente essenziale".
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