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Cronache
Aldo Giannuli: "Ecco perché stiamo perdendo la guerra con l'Isis"

La tragedia colpisce il cuore dell’Europa. Il prof. Aldo Giannuli, storico e tra i maggiori esperti italiani di servizi segreti, offre un’analisi indispensabile per capire quello che sta accadendo nel libro GUERRA ALL'ISIS, edito da Ponte alle Grazie.

IL LIBRO

Aldo Giannuli, tra i maggiori esperti italiani di intelligence e geostrategia, si cimenta in un’inchiesta sull’ISIS: un «mostro» che tutti dicono di voler combattere, alcuni cercano di pilotare a proprio vantaggio (finanziandolo o contrastandolo timidamente) e, soprattutto, pochi dimostrano di aver compreso a fondo.

Dopo quindici anni di guerre e centinaia di migliaia di morti, la «coalizione dei volenterosi», guidata dagli USA a partire dal 2001, ha ottenuto il paradossale risultato di rafforzare o addirittura trapiantare lo jihadismo in tutti i teatri in cui, a vario titolo, è intervenuta. Ne è derivata una centrale del terrorismo internazionale che sembra essere stata partorita dalla mente di un romanziere eccentrico. Un soggetto «liquido» in grado di passare dalla clandestinità al governo di uno Stato nel volgere di pochi anni; di rompere gli steccati operanti fra le nazioni per fare proseliti ovunque, persino nei Paesi occidentali; di promuovere una sofisticata guerra psicologica fatta di atrocità reali e suggestioni simboliche; e di inserirsi a pieno titolo nel «gioco dei troni» che contrappone potenze maggiori e minori nello scacchiere mediorientale.

Capire l’effettiva natura di Daesh, i suoi obiettivi strategici di fondo come i suoi ripiegamenti tattici, significa fare fronte al rischio, sempre più tangibile, di una sua catastrofica vittoria. Questo volume vuole suggerire il necessario cambio di rotta in una lotta che interessa tutti, dall’uomo comune al decisore politico; una lotta in cui, se oggi è troppo presto, domani sarà troppo tardi.

L’AUTORE

Aldo Giannuli è ricercatore in Storia Contemporanea all’Università degli Studi di Milano. Per diversi anni consulente delle Procure di Bari, Milano (strage di piazza Fontana), Pavia, Brescia (strage di piazza della Loggia), Roma e Palermo, dal 1994 al 2001 ha collaborato

con la Commissione Stragi. Per Ponte alle Grazie ha pubblicato una serie di inchieste dedicate al ruolo dell’intelligence nella società dell’informazione e alle sfide poste al mondo contemporaneo dalla globalizzazione e dalla crisi dei processi di modernizzazione: Come funzionano i servizi segreti (2009), 2012. La grande crisi (2010), Come i servizi segreti usano i media (2012), Uscire dalla crisi è possibile (2012). È inoltre autore di Papa Francesco fra religione e politica (2013).

ESTRATTO DAL LIBRO "GUERRA ALL'ISIS" (per gentile concessione di Ponte alle Grazie)

Dobbiamo chiarire quattro parole: «stiamo», «guerra», «perdere» e «ISIS». «Stiamo»: prima persona plurale; ma è il soggetto reggente la frase? Include chiaramente l’Occidente. Certo, gli occidentali, a causa delle sciagurate decisioni dei propri governanti, questa situazione sono andati a cercarsela: tre guerre, una più insensata dell’altra (prima e seconda guerra del Golfo e Afghanistan), occupazioni inutilmente brutali, errori politici e strategici ininterrotti, senza dire delle colpe storiche; europei e statunitensi non avrebbero potuto far di meglio per ottenere il disastro presente. Certo, larghe fette di opinione pubblica occidentale si sono schierate contro1 e dunque non portano la responsabilità del massacro reciproco; ciò non toglie che, obiettori e bellicisti, siamo stati tutti sbattuti in prima linea in questo conflitto selvaggio, come ben dimostrano le vittime delle stragi di Madrid, Londra, Parigi, Copenaghen ecc.

Ma quel noi include anche i sostenitori della «Primavera araba» del 2011-2012, che chiedevano libertà individuali e collettive, democrazia, stato di diritto, liberazione della donna. Primavera che è stata soffocata proprio dall’islamismo e dall’intervento armato dell’Arabia Saudita contro il Bahrein: Introduzione. Perché stiamo perdendo la guerra con l’ISIS non a caso, perché il rinnovamento delle società arabe era ed è frontalmente contrapposto al progetto islamista. Include anche gli immigrati islamici in Europa, la cui condizione di vita peggiorerebbe bruscamente se vincesse il Califfato. E include anche chi vuole l’osservanza dei diritti dell’uomo, delle garanzie dello stato di diritto ecc., tutte cose che i governi occidentali hanno fortemente compromesso invocando il pericolo terrorista (basti pensare al Patriot Act americano).

E in quel «noi» mi riconosco: come laico sono schierato contro ogni teocrazia e intolleranza, come libertario sono ostile a ogni totalitarismo, come marxista non posso che essere nemico di un regime che reintroduce la schiavitù, come internazionalista sono solidale con i popoli arabi oppressi dal regime sanguinario del Califfato, come europeo mi sento uno dei possibili obiettivi degli attentati, come uomo civile sono indignato per le barbare sofferenze imposte ai prigionieri di Daesh.

E infine ho anche un motivo più personale: ho dedicato trent’anni del mio lavoro a combattere il metodo delle stragi indiscriminate di civili, ora non posso che continuare questo impegno contro gli assassini dell’ISIS. La seconda parola da spiegare è «guerra»: già, ma che guerra è questa che nessuno ha dichiarato e che non ha linee di fuoco, regole e confini? Se per «guerra» si intende uno scontro fra eserciti regolari, con truppe schierate, carri ar- mati, aerei ecc., ciò che sta accadendo è solo in piccolissima parte corrispondente a un simile scenario. Quel che prevale ha piuttosto l’aspetto di una guerriglia, con attentati, forme di guerra irregolare, manovre di destabilizzazione. Soprat- tutto, è un ginepraio di crisi locali (Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Mali, Nigeria ecc.) che però si connettono fra loro in un insieme spesso indecifrabile. Si tratta della prima guerra globale della storia, anche se lo scenario riguarda un numero pur sempre ristretto di Paesi, ma la posta in gioco, comun- que vada, cambierà gli equilibri planetari e immetterà in un panorama decisamente mutato rispetto al presente. Dunque, gli effetti saranno quelli di una vera e propria guerra, combattuta, però, con criteri, metodi, strategie e tattiche molto diverse dalle consuete.

Quella che abbiamo in testa è la Seconda guerra mondiale, ma già per descrivere il cinquantennio di «pace» che è succe- duto ad essa si è spesso usato l’espressione Terza guerra mon- diale, a metà fra la metafora e il riconoscimento di un nuovo tipo di belligeranza. Alla rivoluzione marziale che si è pro- dotta, abbiamo dedicato un paragrafo del sesto capitolo.

La terza parola è «perdere»: vuol dire che stiamo per essere invasi da orde di saraceni con le scimitarre sguainate? A questo sono dedicate alcune sezioni del primo e del sesto capitolo. La partita in gioco è un’altra: la nascita di un super- stato islamico a carattere teocratico e jihadista in grado di mutare radicalmente l’ordine internazionale, con conseguenze catastrofiche per la democrazia, per la pace, per l’eguaglianza. E veniamo al termine «ISIS»: in realtà sarebbe stato più corretto scrivere «jihad», di cui l’ISIS è solo una delle espressioni, quella attualmente più conosciuta.

In effetti, il Califfato potrebbe essere invaso e distrutto, e non per questo lo scontro finirebbe. Rischieremmo lo stesso di perdere dopo. Quando Osama Bin Laden cadde sotto i colpi dei Navy Seals, si pensò che la guerra contro l’islamismo fosse definitivamente vinta; poi è saltato fuori l’ISIS, mentre Al Qaeda, per quanto ridimensionata, non è scomparsa e col- pisce ancora. E qui si pone il problema dell’identificazione del nemico. Uno degli errori che ci stanno portando alla sconfitta è l’idea che la guerra sia soltanto un affare di alcune organizzazioni terroriste composte da qualche migliaia di uomini, debellate le quali tutto si risolverebbe. Si tratta di una minimizzazione irresponsabile, che impedisce di capire che dietro le espressioni politiche e militari di questa guerra c’è una base sociale che produce i soggetti combattenti. Se uno cade, dopo qualche tempo ne viene fuori un altro.

L’errore opposto (ne parliamo nel primo capitolo) è quello di pen- sare che tutto l’Islam stia muovendo guerra all’Occidente. Al riguardo è utile qualche puntualizzazione: il «continente islamico» (nel primo capitolo, spieghiamo il significato di questo termine) va dal Marocco all’Indonesia, ma una sua espressione più ridotta, quella di Medio Oriente - Nord Africa (in sigla, ME-NA), include tutto il Nord Africa e, a est di Suez, il territorio che va sino al Pakistan verso est e all’Afghanistan, Cecenia, Tagikistan, Uzbekistan verso nord. Poi c’è un’area più ristretta, che va dal canale di Suez verso est, sino all’Iran escluso, ma della quale occorre considerare solo le zone sunnite (parti di Libano, Siria, Iraq, poi Giordania, Sinai), che inizia a essere indicata con l’espressione «Sunnistan». Dunque, quando si parla di jihad, occorre tenere ben presente la sua diffusione (o, simmetricamente, la sua concentrazione) territoriale.

Si tratta di un fenomeno con un seguito minoritario ma di massa nella zona del Sunnistan, con una serie di enclaves in Africa e Asia. Nel ben più va- sto mondo islamico, la jihad ha un seguito molto più ridotto, anche se da non sottovalutare. Insomma, il primo problema che abbiamo è prendere le misure esatte del nostro avversa- rio, senza esagerare né per difetto né per eccesso.

Il tutto è, poi, complicato dall’uso incauto delle parole. Infatti, uno dei problemi principali della discussione sull’attuale conflitto mediorientale, sta nell’utilizzo assai impreciso di vari termini. Ad esempio, spesso si utilizzano disinvoltamente come sinonimi espressioni quali fondamentalismo, radicalismo islamico, islamismo, jihadismo, wahhabismo o tradizionalismo, espressioni che, invece, hanno significati diversi, talvolta solo per una sfumatura, altre volte per motivi ben più sostanziali.

Spesso si tratta di concetti intrecciati con aree di influenza parzialmente sovrapposte: ad esempio, non tutti i «fondamentalisti» sono anche wahhabiti, mentre ci sono gruppi di area wahhabita che non sarebbero correttamente considerabili come «fondamentalisti»; non tutti i tradizionalisti sono jihadisti, e non tutti gli islamisti sono wahhabiti, mentre radicalismo islamico e islamismo sono termini assai più prossimi fra loro.

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aldo giannuliguerra all'isis
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