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Cronache
Animali e farmaci, lo strano (e antieconomico) caso italiano

Di dr. Angelo Troi - Sindacato veterinari Liberi professionisti (SIVeLP)

Nella maggioranza dei Paesi Europei i farmaci umani sono venduti dai medici e quelli per gli animali dai veterinari.
Non è detto che il nostro sistema di gestire i farmaci tra pazienti, medici e farmacie non sia il migliore; comunque è diverso.

In Italia il farmaco veterinario non è venduto dai veterinari, come quello medico non è venduto dai medici, mentre nel resto della UE è generalmente normale che le strutture ed i professionisti commercializzino farmaci. Da qui la necessità, nelle altre nazioni del Continente, di separare farmaci umani e veterinari, per distinguere i rispettivi mercati.

Nel resto d’Europa c’è anche da dire che il principale possessore di animali non è il sistema pubblico, mentre in Italia i canili, finanziati e sostenuti con fondi pubblici, rappresentano i maggiori detentori di animali da compagnia (da curare).

In Italia converrebbe dunque concedere l’accesso a farmaci meno costosi (sottolineiamo “unicamente per gli animali da compagnia“) quando compatibili dal punto di vista medico-scientifico. Sarebbe un vantaggio per i cittadini ma anche per la collettività, che attraverso Enti Pubblici sostiene numeri di pets incompatibili con altri Stati Avanzati.

Ovviamente questo non sarebbe un problema insuperabile per il mercato farmaceutico in quanto esiste “in esclusiva” una serie di prodotti, quali antiparassitari e vaccini, piuttosto specifici per le varie specie, che quindi non trovano equivalenti a uso umano. Ad esempio i prodotti vermifughi si contano in umana su un paio di dita, mentre in veterinaria ne sono disponibili decine.

Inoltre abbiamo articoli specificamente preparati per essere facilmente somministrati agli animali, che sicuramente non percepirebbero “concorrenza” in prodotti a uso umano, non altrettanto facili da utilizzare. Il generico umano sarebbe dunque un vantaggio in primo luogo per il "sistema canili" e associazioni di assistenza, quindi per amministrazioni pubbliche e cittadini.

Poi esistono necessità di terapie nuove, non ancora registrate per uso veterinario (o che mai lo saranno) perché destinate ad un mercato troppo ridotto; basti pensare che non si trovano nemmeno farmaci a uso umano per mercati marginali, vedi il problema delle malattie rare con il cosiddetto farmaco orfano, considerato efficace per una patologia infrequente, ma non disponibile per motivi evidentemente commerciali.

Non esiste un problema reale per gli antibiotici e relativa resistenza, purché si stabilisca se e dopo quanti anni un determinato principio attivo possa essere usato negli animali.


Tra le “bufale” potrebbe esserci il generico veterinario.

Mentre in umana il cittadino è obbligato a ricorrere possibilmente al generico (che alla sanità costa molto meno), in veterinaria si “inventerebbe” un mercatino di prodotti a costo più basso. La differenza? In umana i farmaci pagati dal SSN hanno prezzi "contrattati" da aziende e sanità, mentre in veterinaria il costo non ha limiti, quindi chiunque comprende che una piccola percentuale di sconto parte da cifre in totale libertà. Poco vantaggio per gli acquirenti.
Peccato si tratti di un piccolo mercato, in mano a poche multinazionali, che dunque non farebbero altro che vendere quello che  è  a brevetto scaduto (come già succede normalmente) a prezzi un po’ più bassi: piccolo mercato uguale piccolo sconto, per cui non si arriverebbe mai a seri risparmi per lo Stato e i Cittadini.

Tuttavia il mercato è mercato. Certamente finanzia una serie di soggetti sponsorizzati in modo trasparente ed evidente – come è giusto che sia – basta che tutti lo capiscano e se ne accorgano.

Istituzioni, Politica e interessi collettivi potrebbero opporre “ragioni di Stato” riducendo spesa pubblica e privata, eppure non è detto che avvenga, nemmeno in anni di difficoltà per le famiglie.

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