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Cronache
Caporalato, donne italiane sfruttate nei campi: paga da fame e avance sessuali

Non solo braccianti uomini. Ci sono anche tante donne italiane che vivono la stessa situazione di sfruttamento. Orari di lavoro sfiancanti e paga da fame. Ma anche avances sessuali dei padroni e dei caporali. E' la denuncia di Lucia Pompigna a Redattore Sociale. La donna, 58 anni, vive a San Marzano, in provincia di Taranto, dove il lavoro in agricoltura impiega una grande fetta della popolazione. Anche lei dal 1990 lavora nei campi, all’inizio sempre sotto caporale: oggi è entrata nel progetto “Donne braccianti contro il caporalato”, che impiega una cinquantina di braccianti pugliesi e lucane, vittime di sfruttamento, coinvolgendole nella prima filiera bio-etica contro il caporalato dedicata alle donne. Il progetto, promosso dall’associazione NoCap in collaborazione con il gruppo Megamark e la rete Perlaterra, assicura alle lavoratrici un contratto di lavoro dignitoso, che prevede 6 ore e mezza di lavoro al giorno e una paga di 70 euro lordi. Oltre a questo, le donne hanno a disposizione un alloggio e il trasporto gratuito, con mezzi sicuri. 

“Ero stanca di essere sfruttata nei campi – racconta Lucia – . Quando andavo a lavorare, trovavo sempre situazioni spiacevoli: a volte c’era il proprietario che metteva l’occhio addosso alle ragazze, altre volte il caporale che ti ricattava. Alla fine sono loro che decidono se e dove devi andare a lavorare, quante ore e quanto devi guadagnare. Per di più, le donne che lavorano sotto un caporale sono mal viste: sono accusate di non essere mai a casa, e si insinua che chissà cosa vanno a fare tutto il giorno”. 

Dal 2017, così, Lucia decide di smettere. “Era comunque una mia scelta – spiega –. Mi sono accorta che non valeva più la pena di lavorare a certe condizioni, con il caporale che ti urla alle spalle, che ti paga pochissimo e che ti porta in giro su camioncini pericolosi, senza assicurazione e coi freni usurati, che possono rompersi da un momento all’altro. Io ero arrivata a lavorare fino a 12 ore al giorno in magazzino. Allora ho pensato: vale più la mia vita o il mio lavoro? Così ho smesso. Solo quest’anno ho ricominciato, grazie a questo progetto”. 

Lucia è una delle poche che si è sempre attivata per denunciare le ingiustizie subite, attraverso l’attività sindacale e incontri e tavoli con le istituzioni. Per il suo impegno ha anche subito pressioni, sia da parte dei caporali e degli impresari agricoli, che da parte delle altre braccianti. “Mi accusavano di fare casino e rischiare di far perdere il lavoro alle ragazze. L’azienda ha smesso di assicurarmi il trasporto sui campi, mi dovevo arrangiare da sola. Ma il ricatto è soprattutto psicologico: la maggior parte delle persone che lavorano in agricoltura hanno per forza bisogno di guadagnare, non hanno scelta. E la competizione è fortissima: c’è una specie di gara per far vedere chi lavora meglio e di più, perché quando il lavoro cala l’azienda tiene solo i migliori e manda a casa gli altri”. 

Avviare un progetto di filiera etica, comunque, in questo contesto non è semplice. “Le donne hanno paura ad aderire – conclude Lucia –. Temono che il progetto duri poco, che poi si torni sotto il caporale e che ci siano ripercussioni… Ci sono caporali che fanno di tutto per sabotarci e per convincere le braccianti a tornare a lavorare con loro. E poi è stato difficile trovare aziende disponibili ad aderire. Comunque, si tratta di un progetto appena nato, e piano piano le cose stanno iniziando a carburare. È completamente diverso poter lavorare in un ambiente sereno, in cui non ti senti il piede del caporale che ti schiaccia la testa”.

Da Redattore Sociale

 

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