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Cronache
Carceri in allarme per il Covid, ma la vera emergenza è il sovraffollamento

Il coronavirus e le carceri

Le rivolte nelle carceri hanno riempito la cronaca delle scorse settimane, puntando i riflettori su un problema sempre più sentito ma mai risolto: la precarietà in cui versa il sistema carcerario italiano nel suo complesso. Ne abbiamo parlato con Loredana Giani, avvocato e professore ordinario di diritto amministrativo presso l’Università Europea di Roma.

 

Poche settimane fa abbiamo assistito a rivolte nelle carceri italiani a causa della sospensione delle visite. Com’è la situazione ora?  

“La situazione pare sia sotto controllo. I provvedimenti adottati sono stati drastici ma volti a contenere il contagio, e le amministrazioni carcerarie hanno cercato di ridurre gli ingressi dall’esterno perché era l’unico strumento che avevano a disposizione.

La comunicazione di tutto ciò è stata molto impattante perché avvenuta quando l’Italia non era ancora tutta zona arancione e misure così drastiche non erano state adottate per nessun’altra realtà con profili di criticità, si pensi agli ospedali. In una situazione di estrema fragilità, quale quella carceraria, il contatto con l’esterno è molto importante, e alla base della rivolta c’era principalmente un’enorme paura, soprattutto la paura di perdere quel contatto con l’esterno che per loro è vitale.”

 

E infatti sappiamo che dai detenuti il tempo e le informazioni dal mondo sono percepiti in modo diverso rispetto a “noi”: crede quindi che non siano state adottate le giuste modalità di comunicazione nel raccontare loro questa emergenza?

“Penso di no, ma non perché l’informazione non sia stata data, ma perché andava costruita attorno alla loro realtà specifica. Il carcere amplifica le fragilità dei soggetti, e anche le modalità comunicative devono adattarsi, per esempio ricevere le notizie del numero dei morti ha un impatto ancora maggiore rispetto a quello che ha su di noi. Solo in alcune realtà carcerarie si sono verificate rivolte, ed evidentemente alla base c’è stato anche un problema di corretta veicolazione dell’informazione. Per esempio, era necessario fare capire che le misure di fermare le visite erano enormi ma proporzionate alla situazione contingente e, soprattutto, compensate, nei limiti del possibile da altre misure quali l’utilizzo di videochiamate o l’estensione della possibilità di contatti telefonici. Ora probabilmente è stato fatto ed è anche per questo che la situazione è tornata sotto controllo.”

 

Lei pensa che le misure contenute nel decreto “Cura Italia” siano sufficienti per affrontare la “situazione carceri” attuale?

“Direi di no, ma sono un primo passo significativo soprattutto della consapevolezza del problema sistemico delle carceri. Quelle del decreto sono misure tampone e pagano il prezzo da un lato della criticità in cui il sistema carcerario versa, e dall’altro di un problema strutturale del nostro sistema nel quale manca la cultura della programmazione di strumenti per la gestione di un evento straordinario. A noi manca la ‘cultura del rischio’, che invece altri Paesi hanno, mentre abbiamo una forte e predominante “cultura dell’emergenza”.

Se adottassimo una cultura del rischio, se prevedessimo a monte la possibilità che eventi eccezionali si verifichino, dove prevedere non significa annunciare con esattezza quanto accadrà in futuro ma solo fare delle congetture sulla base di considerazioni logiche e di dati tecnici o scientifici a disposizione, in casi come questo ci troveremmo a operare con strumenti straordinari, ma non “extra ordinem”. Pensiamo ai paesi che hanno una disciplina dello stato di eccezione. Li vediamo agire con piani di intervento molto più elastici che consentono una gestione della crisi attraverso uno strumento ordinario, invece di usare uno strumento straordinario, che va in deroga a ogni principio senza un bilanciamento parlamentare, come stiamo facendo noi.

Abbiamo un presidente del consiglio che sta traghettando il Paese in questo periodo di emergenza attraverso strumenti che normalmente non sono deputati allo scopo per cui ora vengono usati e che da più parti hanno fatto invocare, condivisibilmente, un coinvolgimento del Parlamento. Se ci fosse stato un sistema di gestione dello stato d’eccezione, magari non si sarebbe trovato a farlo da solo e soprattutto avrebbe avuto un bilanciamento costituzionale. I commenti al ‘Cura Italia’ non sono molto positivi, è stato criticato da tante parti, ma in una situazione di emergenza non ci si può aspettare molto di più. Funziona? Relativamente. Ma questo è un problema di gran parte della gestione delle emergenze in Italia, come la questione terremoti ci dimostra.”

 

Quindi la situazione delle carceri italiane riflette un problema più generale.

“Quando non c’è programmazione, eventi straordinari vengono gestiti con una straordinarietà non calibrata alla crisi, creando altri problemi: per esempio ora ci troviamo una serie di ordinanze che si sovrappongono e pregiudicano la chiarezza che invece è indispensabile in un momento di emergenza. I cittadini e le istituzioni nella crisi hanno bisogno di norme, poche ma chiare. La mancata previsione di eventi eccezionali aggrava la crisi quando questi si verificano, e il tutto si ripercuote sulla resilienza del sistema, che resiste ma non trova un nuovo punto di equilibrio e, dunque, una capacità di ripresa.

L’obiezione può essere: ‘Chi avrebbe mai pensato a una epidemia di questo tipo?’ Magari nessuno, ma il sistema deve comunque riuscire a garantire la capacità di reazione e non solo di resistenza, prevedendo che qualcosa di negativo possa succedere, anche se poi non succederà o non si sa quando succederà. Per esempio, difficilmente troviamo spazi per l’isolamento nelle carceri italiane, eppure adesso sono fondamentali.”

 

Cos’altro andrebbe fatto, a suo parere?

“Il problema di base è il sovraffollamento. È difficile trovare adesso soluzioni a questo. Non abbiamo altre strutture. Forse l’indulto? A questo punto è una decisione politica. Una parte consistente dei detenuti sono quelli in attesa di giudizio, coloro che potenzialmente dovrebbero essere destinatari di misure alternative. Esiste il braccialetto elettronico, ma non ne abbiamo a sufficienza, non sono collaudati, e quindi non possono essere utilizzati. I domiciliari? Prevedono una serie di passaggi burocratici difficoltosi: innanzitutto, il magistrato deve accertarsi che il detenuto disponga di un domicilio, ma la realtà dei detenuti ci mostra che spesso queste persone non ne hanno uno. O magari ne hanno uno non idoneo, per situazioni di precarietà familiare, magari il coniuge non lo vuole in casa, magari è stato allontanato proprio perché violento col coniuge, magari nella stessa casa c’è già qualcun altro che sta scontando la detenzione ai domiciliari. Il problema reale è il sistema per come è pensato e per come è pensata la struttura carceraria, che altro non è che il riflesso dello stesso sistema normativo, e per come sono scritte le norme: non c’è una corrispondenza piena tra il patrimonio carcerario e la finalità del carcere nel senso che lo stato in cui si versa il primo, frustra le stesse finalità costituzionali del carcere.”

 

Il ministro Bonafede ha ufficializzato pochi giorni fa 15 casi di coronavirus tra i detenuti. Come si affronta questa situazione nella realtà che ci ha appena descritto?

“Dipende. In caso di soggetto positivo, la soluzione è quella dell’isolamento. Se mancano gli spazi, magari il soggetto è spostabile all’esterno del carcere. Magari è possibile garantirgli una quarantena in isolamento all’interno del carcere, ma magari a scapito dello spazio altrui. Per esempio, a Rebibbia sono già cinque persone per cella. Si torna sempre alla questione sovraffollamento. Ma mettersi adesso a risolvere questo problema è molto più complesso di quanto lo sarebbe stato l’anno scorso, senza un’emergenza nazionale in atto. Bisognerebbe cominciare a pensare delle modalità alternative che consentano di intervenire sulle strutture. Dei finanziamenti esterni, magari. In questo momento, non mi pare possa individuarsi, nel breve periodo, un impegno economico consistente per portare avanti una revisione e ristrutturazione delle strutture carcerarie. Adesso tutti capiscono, anche i detenuti, che l’obiettivo primario è il potenziamento del sistema sanitario. Quindi bisogna pensare alternative diverse.”

 

Crede che questo periodo di emergenza possa essere una spinta decisiva per risolvere anche nel lungo periodo il problema del sovraffollamento oppure si tratta di contenere i danni e pensarci a emergenza finita?

È più realistico pensare di intervenire a emergenza finita, ma cominciare a pensare a quali interventi porre in essere lo si può fare già da ora, bisogna farlo già da ora, proprio per evitare altre misure tampone. L’indulto è una misura tampone. Magistrati, avvocati, garante dei detenuti, tutti sono consapevoli del fatto che la situazione è ormai insostenibile. Noi abbiamo un tasso di recidiva tra i più alti in Europa. È significativo. Posto che la funzione del carcere non dovrebbe essere solo punitiva ma anche rieducativa e di reinserimento sociale “della persona”, se il tasso di recidiva è così elevato evidentemente il sistema non persegue quell’obiettivo, la sua funzione è prevalentemente punitiva. E questo non conviene a nessuno.

Ci sono molti elementi che mostrano la criticità del sistema, che va ripensato nel suo complesso. Non solo il patrimonio edilizio, ma anche quello normativo. Non ha senso rifare le carceri se poi al magistrato di sorveglianza non do gli strumenti normativi per evitare il sovraffollamento, il magistrato applica la norma e non lo fa certo a suo piacimento. Così come gli agenti di polizia penitenziaria che sono sotto organico sempre: sono persone che vanno a lavorare ogni giorno sperando che non succeda nulla. E questo non va bene. Dobbiamo ripensare l’intero sistema non solo per rispondere alle emergenze presenti, ma soprattutto per pianificare la gestione futura.”

 

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