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Giorno della memoria, non basta ricordare. Si rischia ancora di dimenticare tutto
Non basta ricordare: la Memoria deve essere viva, completa e condivisa, o rischia di spegnersi come una candela nel vento

La Memoria selettiva e il rischio dell’oblio
Il 27 gennaio 1945 una pattuglia dell'Armata Rossa abbatté i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz, svelando al mondo l’inferno nascosto dietro la scritta Arbeit macht frei, e liberando i settemila prigionieri rimasti, tra cui Primo Levi, il primo a raccontare quanto aveva vissuto in Se questo è un uomo, libro scritto fra la fine del 1945 e l’inizio del ‘47.
Secondo lo United States Holocaust Memorial Museum di Washington, furono circa 17 milioni le vittime del processo di "arianizzazione" e “pulizia etnica” attuato dal regime nazista: sei milioni di ebrei; quasi otto milioni di cittadini e soldati russi; 1.8 milioni di polacchi; più di 310mila serbi; 25mila sloveni; 250/500mila rom e sinti; oltre a un numero imprecisato di disabili, omosessuali e testimoni di Geova.
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Il 1° novembre 2005, nel sessantesimo Anniversario della Liberazione dei campi di concentramento, con la Risoluzione 60/7 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite istituiva il Giorno della Memoria, già in vigore in Italia fin dal 2000, designando questa data per commemorare tutte le vittime delle persecuzioni del nazifascismo.
Memoria smemorata
Oggi, dunque, ricordiamo ognuno di loro, sebbene da decenni tutti, ma proprio tutti, se lo siano dimenticato. Una disparità sintomatica di una distorsione più ampia che investe buona parte della narrazione dominante.
Uno squilibrio che assume risvolti paradossali nel Giorno della Memoria, che ha finito col venir identificata con una sola porzione del dramma, dimenticando due terzi dei morti non ebrei, ingoiati come gli altri dai campi di concentramento. Una giornata che dura settimane nel corso delle quali, prima e dopo, ci viene imposto di ricordare.
Ma come possiamo parlare di ricordo, quando questo è frammentato e parziale? Da anni, il Giorno della Memoria è costruito attorno a una narrazione focalizzata su un unico contesto che riserva un posto privilegiato al ricordo di sei milioni di ebrei sterminati. Questa centralità, purtroppo, ha trasformato questa commemorazione in un rito esclusivo, più che un momento di riflessione universale sulla sofferenza umana.
La comunità ebraica ha, in effetti, dato forma a una campagna di informazione che ha fatto del Giorno della Memoria un simbolo distintivo del proprio dolore e del dramma della Shoah. Un ricordo giustamente sacro, ma non possiamo ignorare che altri undici milioni di vittime, troppo spesso dimenticate, meriterebbero lo stesso riconoscimento e la stessa dignità nella memoria collettiva.
Memoria condivisa
Quest’anno, l’ottantesimo anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz cade in un momento molto delicato della storia. Ursula von der Leyen ha dichiarato pochi giorni fa che «L’antisemitismo è un veleno per la nostra comunità. È compito di tutti combatterlo». Non c’è dubbio. Altrettanto velenoso, però, è aver accettato di trasformare il Giorno della Memoria esclusivamente nel giorno della Shoah.
Dimenticare tutte le altre vittime equivale a ucciderle due volte: la prima nei campi di concentramento, la seconda nel ricordo. La memoria selettiva è memoria morta per eccesso di strumentalizzazione e ridondanza; è uno sterile esercizio di retorica incapace di abbracciare la complessità e la totalità di una tragedia che così rischia di perdere il suo significato universale.
Le ferite della guerra non si rimarginano. Mio nonno, di radici ebraiche, fu salvato dall’allora direttore generale della Fiat, Vittorio Valletta, che lo fece nascondere con un tempismo miracoloso dalle soldataglie fasciste. In modo rocambolesco, e per un tratto “cammuffato” in un carico di spazzatura, fu portato dall’Arsenale di Venezia agli stabilimenti di Taranto, dove rimase fino alla fine del conflitto.
Nonostante fosse sopravvissuto e per sua fortuna scampato alla deportazione, non si riprese mai da quella esperienza. Continuò a lavorare, progettando pozzi petroliferi sparsi nei Paesi del Golfo, ma il peso della memoria lo accompagnò per tutta la vita. Quando andò in pensione, si tolse la vita. Questa storia mi ricorda che le cicatrici profonde attraversano generazioni.
Noi non siamo cresciuti fra le macerie e le miserie della Seconda guerra mondiale. E nemmeno nell’inferno di Gaza o delle centinaia di guerre che insanguinano il mondo in questo momento. Anche per questo, forse, non comprendiamo fino in fondo cosa significhi vivere fra i calcinacci delle proprie vite, respirando odore di morte. Oggi, come 80 anni fa, in molti non potranno conoscere altro “latte e miele” se non quello dell’odio e della vendetta. Anche per questo non è più tempo per ipocrisie o memorie a scartamento ridotto. È ora di dare un valore inderogabile a quel “mai più” che tante volte abbiamo ripetuto, come un mantra vuoto, salvo poi dimenticarlo nel momento in cui era necessario trasformarlo in azione.
Un atto di resistenza e di luce
Per rispondere alla lezione che questo giorno ci affida, è necessario riscoprire il valore della kalokagathìa, l’identità tra ciò che è bello e buono per l’uomo. In un mondo sempre più diviso, polarizzato e sordo, abbiamo fame di armonia, dialogo, riconciliazione. Mi torna in mente un appunto che Einstein scrisse nel 1921 sul quaderno di dediche di Adriana Enriques De Benedetti, figlia del matematico ebreo Federigo Enriques, suo grande amico: «Lo studio e l’amore per la bellezza e la verità sono cose dinanzi alle quali si vorrebbe sempre rimanere bambini». Così, siano lo studio e l’amore per la verità a guidarci verso la Memoria, la dignità e giustizia. Poiché se il passato non illumina il futuro siamo condannati a vagare nelle tenebre.
Tramandare il ricordo è un atto di resistenza, una luce che, come la conoscenza, rende liberi e coltiva la pace tra i popoli, senza distinzioni di religione, provenienza o colore politico. Affinché non si perda come una candela nel vento, tuttavia, la testimonianza deve essere viva, completa e condivisa. È resistenza a patto che se ne riconosca la complessità, impedendole di diventare vuota retorica. Non basta ricordare: la memoria, per essere autentica e non disfunzionale, deve custodire ogni vita spezzata, abbracciare la totalità del dolore, passato e, soprattutto, presente. Solo così può ambire a essere un punto di riferimento verso quel "mai più" inutilmente invocato e miseramente tradito.