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Cronache
Marazzita: "Codice penale fatto per i pm. Giustizia da rivoluzionare"

È senza ombra di dubbio il “principe del Foro”, l’avvocato penalista più celebre d’Italia. Nino Marazzita, calabrese di Palmi, ha una vitalità che non corrisponde alla sua età anagrafica. Estremamente curioso dell’animo umano, capace di indignazione di fronte alle ingiustizie, iperattivo, ironico e autoironico, è presidente onorario dell’associazione senza scopo di lucro che combatte la pedofilia “Caramella buona”. Come avvocato si è occupato di processi entrati nella storia come quello per l’assassinio di Pier Paolo Pasolini, del massacro del Circeo, di Aldo Moro e di tanti altri personaggi. Ha difeso Donato Bilancia, Michele Profeta e Pietro Pacciani.

Nomi che fanno tremare i polsi tanto da essere soprannominato “l’avvocato dei diavoli”, titolo del suo libro edito da Rizzoli. Sono questi alcuni dei processi che lo hanno portato ai vertici dei più grandi avvocati del diritto internazionale. E pensare che fu solo per accontentare il padre Giuseppe (senatore socialista titolare di uno studio legale a Palmi) che decise di iscriversi a Roma, alla facoltà di giurisprudenza. Ma il desiderio del giovane Marazzita era quello di fare il regista tanto da frequentare per un anno il Centro sperimentale di cinematografia riuscendo a vincere una borsa di studio. Arrivò terzo, prima di Bernardo Bertolucci che si classificò al quarto posto. Marazzita non risparmia durissime critiche alla magistratura, agli avvocati e al sistema giudiziario italiano.

La legge è uguale per tutti si legge nelle aule giudiziarie. Da avvocato reputa sia davvero così?

In astratto è così perché le leggi si applicano a chiunque in base al principio di eguaglianza. Però, in concreto, poche persone hanno la reale possibilità di far valere i propri diritti mentre per le altre il cammino è irto di difficoltà. Si tratta di ostacoli economici, culturali e sociali che impediscono l’effettivo godimento dei diritti costituzionali e, tra questi, del diritto di difendersi davanti a un giudice.

In Italia esiste ancora lo stato di diritto?

Stato di diritto significa che l’autorità deve rispettare la legge e questa regola serve a impedire abusi di potere e a difendere i diritti umani. Purtroppo nel nostro sistema giudiziario esistono troppi margini di discrezionalità per i magistrati mentre mancano efficaci sistemi di controllo a difesa del cittadino indagato o imputato. Quindi lo stato di diritto all’interno del processo penale è una chimera.

Nel nostro Paese ci sono quasi 5 milioni di processi che attendono di essere celebrati. A che cosa sono dovuti i malesseri della giustizia italiana?

La giustizia è in grave difficoltà e non funziona come dovrebbe. Noi abbiamo un processo che non è un processo dello Stato, è un processo guidato e orientato dalle Procure della Repubblica. Si scelgono un imputato, lo perseguono e vanno avanti, fino alla Cassazione. Ma sono carenti i controlli perché i giudici a volte abdicano al loro dovere di applicare in modo imparziale la legge. Questo spiega perché ci siano molti errori giudiziari. Bisogna ristrutturare il processo perché la riforma del 1989 avrebbe dovuto trasformare il rito inquisitorio in accusatorio ma è venuto fuori un ibrido che non è niente. Ma anche il codice penale, il Codice Rocco, che ha superato i 70 anni, ha bisogno di una revisione organica.

Come migliorare il rapporto giustizia-cittadini?

Quello che mi riguarda di più e che credo sia la cosa più importante per i cittadini è cambiare il sistema del processo, fare il processo penale che sia un processo giusto, un processo equo. Arrivati a questo punto mi pare un’utopia. L’unica speranza che abbiamo è questo nuovo ministro della Giustizia, Cartabia, che ha avuto ruoli di rilievo: è stata presidente della Corte Costituzionale, ha occupato alti incarichi accademici ed è ancora una donna giovane. Ho l’impressione che i primi approcci che ha avuto come titolare del ministero della Giustizia siano stati quelli giusti per cercare di cambiare. L’obiettivo è quello di rivoluzionare completamente il processo penale che così non può andare. Un processo che crea continuamente errori giudiziari. Lo Stato paga per le ingiuste detenzioni, paga milioni su milioni. Lo Stato paga è un modo di dire perché paghiamo noi e poi, soprattutto, non riesce a raggiungere lo scopo di fare giustizia.

I cittadini percepiscono di essere di fronte a uno scollamento tra l’applicazione della legge e il senso comune. Una clemenza del codice o dei giudici?

Di entrambi. Il codice è fatto per i pubblici ministeri: io lo chiamo il codice delle procure. I giudici, di sovente, con queste difficoltà che hanno, applicano un codice di parte e allora sbagliano anche più spesso.

Che cosa è cambiato quando la magistratura è entrata in politica?

Il sistema è ulteriormente degenerato. Basti pensare a quello che è accaduto al Csm, il Consiglio superiore della magistratura, con la vicenda “Palamara”. Si dice che ha scoperto una pentola bollente. Da quando faccio l’avvocato so come si fanno le nomine al Csm. Mi è rimasto impresso un episodio. Incontrai per caso un magistrato che stava per andare in pensione. Un magistrato integro, uno di quei grandi magistrati che però non appaiono sui giornali, in televisione, non se ne parla mai di loro. Fanno il loro lavoro con discrezione, come deve essere e, anche in questo caso, con sapienza. Lo vidi molto avvilito, usciva dal Consiglio superiore della magistratura. Era andato al Consiglio per ricordare, soprattutto, che lui aveva uno “scatto” di carriera per andare avanti nel suo lavoro. Uno “scatto” come magistrato che sta per andare in pensione, ma ancora non gli era stato riconosciuto. Era molto deluso perché nella magistratura aveva passato la sua vita e mi disse: “Sai Nino, mi hanno chiesto chi è il mio referente politico”. Per avere lo “scatto” avrebbe dovuto operare senza che nessuno lo sollecitasse. Era uno scatto in avanti nella carriera che gli spettava di diritto. Questo è un episodio molto antico che dimostra come “l’inquinamento” c’è da tanto tempo, prima, molto prima di Palamara. 

Parlando dell’uccisione dello statista Aldo Moro ha detto che i mandanti sono rimasti impuniti. Si potrà mai scoprire la verità?

Le persone fermate di recente in Francia avrebbero modo di dire la verità perché non l’hanno mai detta. Hanno raccontato semplicemente cose note a tutti. Persino l’opinione pubblica conosceva le posizioni di questi brigatisti. Adesso ne avrebbero la possibilità. Sono quasi tutti settantenni e per qualcuno il reato è caduto in prescrizione. 

Come riformerebbe il nostro sistema giudiziario?

Penso che la riforma debba essere radicale: i punti fondamentali dovrebbero essere la separazione delle carriere, la non obbligatorietà dell’azione penale, una vera responsabilità civile dei magistrati, aggiornare il codice penale e coordinarlo con quello di procedura penale.

Riforma della giustizia: a chi fa comodo che tutto resti così?

Alle Procure, ai magistrati, ai professionisti dell’antimafia evocati da Sciascia. I magistrati, come Borsellino e Falcone, che hanno combattuto realmente la mafia sono rarità perché troppi magistrati cosiddetti antimafia si limitano ai proclami.

Gli avvocati hanno delle colpe?

Sì, tante. Noi avvocati penalisti potremmo incidere in modo significativo sulla giustizia e sulla sua riforma del processo penale. Purtroppo la nostra cultura è una cultura spesso individualistica ai limiti dell’egoismo. Soprattutto gli avvocati più affermati si fanno i loro ricorsi in Cassazione con parcelle consistenti e vanno felicemente avanti. Il resto non conta.

 

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