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Culture
ANDROMEDA la recensione del libro di Maria Grazia Palazzo

Non segue un ordine, non insegue l’armonia, ma diventa ostaggio di un genere femminile di appartenenza, dissimulando in versi il bisogno di un’altra che non c’è: Maria Grazia Palazzo si manifesta con tali peculiarità nella silloge “Andromeda”, pubblicata da I Quaderni del Bardo Edizioni.

È un urlo, non quello di Munch, ma di una donna che attraverso volti femminili quali Andromeda appunto, Ippazia che si mostra nella copertina, Medusa, Arianna, esplicita segni allarmanti di una mancanza quasi ancestrale di una donna, un pensiero, la bellezza; cadendo l’autrice in una manciata di versi si dichiara preda delle proprie convinzioni. Alle volte. Ma, sempre, la poesia invoca ed evoca sentimenti, emozioni, carne e sangue, lotte, giorni e notti vitali. Forse anche per questo, appena ricevuto il testo non è rimasto per molto tempo in giacenza, come se quel grido riecheggiasse da subito in modo fragoroso: appartiene a quelle donne che hanno tracciato il mito, la storia, voci del passato che risuonano cristalline nel presente. Ippazia, una donna che ha vissuto per la libertà, per la scienza, per il sapere; soprattutto, una donna di pensiero. Ecco, attraverso la poesia, Maria Grazia Palazzo indaga su una questione che ha obnubilato il genere femminile in quanto a dir di molti, troppi, alla donna non è mai appartenuta: la ragione, la luce. Simbolo del peccato e della tentazione, di conflitti, ancora nel contemporaneo sembra debba dimostrare, pare dipendere dallo sguardo maschile.

Diana Battaggia nella prefazione scrive come l’autrice di “Andromeda”, renda incisiva, nel rispetto delle differenze, la voce intergenerazionale con altre donne, perseguendo la coralità. Inoltre, in “Andromeda”, Maria Grazia Palazzo genera preziose costellazioni tra “narrazioni di forme concave e convesse / nel mercato del dareavere / il potere di un monarca assoluto, / gioco per stare al mondo (p. 71); non è certamente facile “stare al mondo”, come non è semplice superare “i fili spinati danzando l’imprevisto della sera”. Le poesie di Palazzo sembrano un cielo di stelle, alcune brillano d’immenso, altre meno, ma ognuna è carica di dense verità; in esse e con esse si danza solcando linee d’ombra e di luce senza preoccuparsi di cercare le giuste simmetrie.

È una silloge nella quale la ricerca filosofica dell’Io stordisce i mille volti e le maschere di una soggettività desueta o forse, consueta, finché “s’incarna, cantando a fil di voce, forse / si ribella alla luce sottile della morte. / Tutti cerchiamo riscatto o ristoro / dell’invisibile” (p. 55). Così, l’autrice armeggia col silenzio nel paradosso delle parole, distoglie lo sguardo dal pensiero perché si possa godere del piacere senza provocare nauseabondi profumi e tra la carne del maschile e del femminile osserva: “inondazioni e incendi / nell’orfismo selvatico / di sillabe solitarie, desinenze”. Poi, dopo aver mangiato parole, l’anima prende respiro, si posa sulle poesie di Dickinson, Pozzi, Plath, Ruggeri, Rosselli, si stordisce e maldestra smuove le membra. Non può esserci quiete. Non ci sono pause. I tormenti delle anime di queste donne esondano in ogni dove, gettando una zattera di speranza.    

E dunque, nel cupo mostrarsi di Maria Grazia Palazzo con “Andromeda” si appalesa in forma trasversale la convinzione della limpidezza, della possibilità di liberarsi dei generi per essere unicamente “Pensiero”. Attestando la ricerca della parola, l’uso appropriato di essa, si evince anche la “scholarschip” di Michelangelo Zizzi: la forza del lessico, il tormento della vita, l’affondare - sporcando persino di sangue - la penna per raggiungere gli abissi dell’anima -, sebbene Eraclito diceva risultare impossibile tale fine; eppur tuttavia, i poeti, il fine, i confini, non li contemplano affatto.    

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