Il romanzo/ "Folli i miei passi", una donna in fuga che nessuno può fermare... - Affaritaliani.it

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Il romanzo/ "Folli i miei passi", una donna in fuga che nessuno può fermare...

Il cuore di Folli i miei passi è un personaggio femminile. Bambina prima, donna più tardi. Una bambina che si innamora di un lupo, sfidando un tabù da fiaba. Alla morte del lupo la bambina impara a fuggire. Si allontana furtiva dal circo in cui vive con suo padre e sua madre e diviene un'altra. La ritrovano sempre da qualche altra parte con altre persone e storie inventate. Crea nomi nuovi per ri-crearsi ogni volta. La vita le propone un marito giovane quanto lei, uno o due mestieri e un amante, l'orco. Colui che le farà scoprire un altro amore, dopo il lupo. L'amore si chiama Bach, l'omone. (da monnalisa/Lankelot). E scopre una verità fondamentale per lei: nessuno, mai nessuno la potrà costringere a fare quello che non vuole.

L'AUTORE - Christian Bobin è nato nel 1951 a Le Creusot, città della Francia centro-orientale. È molto conosciuto nel suo Paese per la sua scrittura intensa e poetica che riconduce colui che legge agli aspetti fondanti dell’esistenza. Con Une petite robe de fête (Mille candele danzanti) nel 1991, raggiunge il successo, restando tuttavia un autore discreto, che rifugge gli ambienti letterari, "innamorato del silenzio e delle rose".

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(per gentile concessione di Socrates)

Il mio primo amore ha i denti gialli. Entra negli occhi dei miei due anni, due anni e mezzo. Dalla pupilla dei miei occhi scivola nel mio cuore di bambina dove si costruisce la tana, il nido, il covo. Mentre vi parlo, c’è ancora. Nessuno ha saputo prendere il suo posto. Nessuno ha saputo scendere così lontano. Ho iniziato la mia carriera di innamorata a due anni con l’amante più fiero che ci fosse: coloro che sono arrivati dopo non sarebbero mai stati all’altezza, né mai avrebbero potuto esserlo. Il mio primo amore è un lupo. Un vero lupo con pelo, odore, denti giallo avorio, occhi giallo mimosa. Macchie di stelle gialle in una montagna di pelliccia nera. I miei genitori escono dalla roulotte strillando; è notte. Una alla volta, le altre roulotte si illuminano, scendono tutti: il clown, la cavallerizza, il giocoliere, le donne, gli altri bambini, tutti in camicia da notte, in pigiama o mezzi nudi; mi chiamano, si accosciano sotto i camion per vedere se non mi sia nascosta lì per gioco e poi addormentata – è già accaduto diverse volte – si allontanano verso la piazza del paese, chiamano ancora, non chiamano più, urlano. Dalle case vicine, alcune finestre cominciano ad accendersi, la gente si arrabbia, protesta per il baccano, minaccia di chiamare la polizia. È mia zia che mi trova. Corre veloce dall’uno all’altro, impone la calma, fa cenno di seguirla in silenzio, nel silenzio più assoluto: il circo, ora al completo, si avvicina alla gabbia, la porta è socchiusa, io sono distesa sulla paglia resa d’oro dall’urina, gli occhi chiusi, la testolina dei miei due anni appoggiata al ventre del lupo. Dormo. Dormo di un sonno terso e beato. Il lupo veniva dalle foreste della Polonia. Lo esponevano per attirare spettatori mentre montavano il tendone. Non rientrava in nessun numero. Non si addomestica un lupo. La gente accompagnava i bambini a far visita al principe nero delle fiabe, la belva maestosa. Non raccontavano loro la verità: che quel lupo era più mansueto di un coniglio, che la cavallerizza gli porgeva il cibo con la mano e che dalla montagna di pelliccia e di stelle non era mai uscito nulla di grave, nemmeno un ringhio. Avevano appeso sopra la gabbia un cartello con scritto in rosso: lupo della regione di Cracovia. La gente era più spaventata dall’insegna che dalla belva assopita in fondo alla gabbia. Ma erano contenti, come prova bastava. Sono i nomi che fanno paura. Le cose senza i nomi non sono nulla, nemmeno cose. Così tutta la tribù è lì, in semicerchio, davanti al quadro della bambina con il lupo. D’accordo, non è pericoloso ma, insomma, ci sono dei limiti; mio padre si avvicina, entra nella gabbia e quando sta per afferrarmi, il lupo drizza la testa, solo la testa, non muove né il ventre né le zampe, come se desiderasse non svegliarmi – e per la prima volta si mette a ringhiare, a mostrare i denti gialli. Nuovo tentativo di mio padre; un ringhio più forte, più deciso, i denti si scoprono fino alle gengive. Mio padre indietreggia, raggiunge gli altri. Discutono, riflettono. Il domatore dice: è il mio mestiere, vado io. La stessa reazione, la mascella vibra. Si sceglie di attendere. Le ore scorrono, silenziose. Sono tutti lì: tremano di freddo davanti alla gabbia per cogliere il momento in cui il lupo si addormenterà. La scena dura fino al mattino. Fino al mattino il lupo veglia sul mio sonno. Quando, accarezzata dai primi raggi di luce fredda, apro gli occhi, mi stiro e comincio ad alzarmi, il lupo piano piano si allontana e va dall’altra parte della gabbia, a concedersi un meritato riposo. Non esco subito. Guardo gli altri attraverso la grata, il pallore dei volti, rido, canto, completamente rigenerata da questo sonno immacolato. Mi acciuffano, mi sculacciano un po’ e mi tengono chiusa nella roulotte per una settimana. Da allora mi sorvegliano. Controllano dieci volte al giorno che la gabbia sia chiusa. Non possono impedirmi di trascorrere delle folli i miei passi 9 ore lì davanti. Quando l’attenzione si allenta, veloce, tendo le mani attraverso le sbarre e gliele lascio leccare. La sera, prima di addormentarmi, mio padre mi deve accompagnare in pigiama davanti alla gabbia e io, per qualche minuto, guardo gli occhi giallo sole nella notte d’inchiostro, mi avvicino e mi perdo in quegli occhi. Il lupo è morto vicino ad Arles. Avevo otto anni. Sono venuti ad avvisarmi con infinite premure, come quando si deve informare un generale di una grave sconfitta delle sue truppe. Non ho detto nulla. La carovana si è fermata poco prima di Arles, in una discarica illuminata di papaveri. Gli uomini hanno tirato fuori i badili, io ho guidato il corteo, ho scelto l’angolo più insanguinato di papaveri. Hanno scavato una buca, mi sono arrabbiata con mia madre, finalmente ha ceduto, hanno esaudito il mio desiderio, hanno fatto scivolare il mio pigiama nella buca e vi hanno avvolto dentro il lupo.

(continua in libreria)