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Culture
Il sociologo Fontana: "E' una crisi politica, ma anche della comunicazione"

La comunicazione che ci arriva ormai da mesi dalla politica è “alla giornata” al massimo “alla settimana” a colpi di schemi colorati e DPCM, per non parlare poi della crisi di governo in corso. Come ci stanno raccontando il futuro?

Non ce lo stanno raccontando, la totale assenza di narrazione politica non fa intravvedere nessuna ipotesi di futuro, manca totalmente l’io narrante, tanto che il governo si deve dimettere. Il ruolo di Conte in questi ultimi difficili mesi è stato quello di “illustratore” di piani a breve scadenza che sono apparsi solo come la somma di numeri, raccomandazioni, preoccupazioni di vari personaggi che agiscono dietro le quinte senza nessuna relazione con altri, spesso in contrasto con altri: i vari presidenti di Regioni. Avevo già espresso il mio parere sui numeri e gli algoritmi, quelli che Cathy O Neil, matematica americana, definisce: politici bugiardi. È accaduto questo in Lombardia, ci hanno raccontato dei numeri, erano sbagliati, si è parlato delle colpe, non delle conseguenze. E, come se non bastasse, a narrare la paura senza speranza ci pensano i virologi in TV con le loro idee e convinzioni contrastanti. Da questo può nascere solo una grande infodemia.

Siamo comunque tutti sempre più sconvolti da questa pandemia e lasciati senza una guida, qualcuno dovrà pure prendersi la responsabilità di guidarci verso la storia dei nostri prossimi giorni, mesi, anni?

Sicuramente questo ruolo è già stato affidato, a volte inconsapevolmente, alle aziende e ai loro leader. Il Trust Barometer Report 2021 di Edelman già anticipa che chi guida grandi organizzazioni viene oggi percepito e riconosciuto come guida: economica, culturale e sociale. Finché la politica ci tratterà solo come corpi da preservare, e chiudere dentro stanze, ci mancherà ogni altro tipo di nutrimento (basti pensare ai dati sulla depressione dei giovani in DAD). Nell’immaginario collettivo le aziende invece possono offrire con una narrazione coraggiosa, sincera, emotiva, vicina al proprio pubblico, un “immaginario” e dei prodotti-servizi che nutrano la mente, il cuore, l’anima.

Quali sono i linguaggi che le aziende devono usare nei confronti dei propri pubblici allora?

È necessario essere vicino all’agenda biografica del pubblico, conoscere i grandi temi sociali del momento storico che stiamo attraversando e avere il coraggio di mostrare le emozioni e di rappresentarle nel racconto di marca o prodotto; costruendo immaginari che diventano proposte di destino. Perché oggi – in un mondo chiuso in casa e privato del domani – si acquista una destinazione di vita e un futuro proposto. Non bisogna temere la propria fragilità e i propri problemi, anzi condividerli con le proprie audience perché i brand e i leader invincibili non sono più credibili nell’immaginario e nell’esperienza comune. I manager delle grandi organizzazioni si trovano, loro malgrado, a dover interpretare la funzione di opinion leader in una social leadership diffusa in “aiuto” della propria comunità di riferimento, che non è più fatta solo di consumatori, follower o fan ma di story-holder – portatori di storie in cerca di aiuto, condivisione, nuovo e autentico coinvolgimento. Ormai c’è un unico player: la persona. La persona come individuo specifico che si narra, la persona intesa come azienda che si racconta. Compriamo, scegliamo, seguiamo individui e organizzazioni che sono autobiografie. Archetipi e personaggi che nel racconto parziale o complessivo di sé: motivano idee, coinvolgono su mondi di marca o di esperienza, vendono prodotti. Questa personalizzazione è un processo che si è intensificato ancora di più con la pandemia e che nel bene e nel male ci accompagnerà anche dopo.

Ma anche ognuno di noi quando sui social si racconta attua questa personalizzazione, fa personal branding?

Sulle varie piattaforme noi parliamo, non raccontiamo. Raramente mettiamo qualcosa di autentico di noi, del nostro vissuto e della nostra autobiografia in quello che postiamo. Abbiamo perso la lucidità che ci fa guardare oltre ed esprimere un pensiero critico e lungimirante. Ognuno si sente in dovere di esprimere sui social la propria opinione su ogni argomento, eludendo anche la minima forma di informazione e diventando un altro piccolissimo anello generatore di caos. Ogni giorno prende piede un argomento che si esaurisce nell’arco di 24/48 ore. Neanche il tempo per formulare i pensieri e già l’argomento non è più in trend. Tutti corrono a vedere le stesse serie TV per poterne parlare prima degli altri, tutti prendono immediatamente posizione in qualsiasi dibattito, si fa solo in tempo a essere pro o contro. Contro Renzi, Pro Governo o viceversa, scuole aperte o scuole chiuse, Pro Vax No Vax. Questa necessità di esprimere la propria opinione su qualsiasi argomento in tempi brevi porta alla creazione delle bolle nelle quali è più immediato crearsi consenso essendo allineati al “sentire” della massa. Tutti abbiamo la stessa opinione, quindi questa opinione è valida e possiamo sentirci nel giusto. Pensarla tutti allo stesso modo, essere uguali, essere tanti, dovrebbe generare un senso di collettività. E invece genera un senso di solitudine come quando si è da soli davanti allo specchio. In questo periodo i social per noi rappresentano la solitudine.

Ci sentiamo in dovere di esprimerci su tutto, ma anche in diritto di farlo, se pensiamo alle varie reazioni per il ban a Trump...

Sì, eppure mi sembra abbastanza chiaro che Twitter e i social in genere, decidendo di bannare Trump non hanno solo dimostrato di essere degli editori, ma editori/agenti politici che con il loro agire costruiscono o demoliscono consensi o dissensi e soprattutto definiscono la realtà. I social media sono così diventati agenti politici e di percezione del reale. Questo deve aprire un nuovo modo di fruizione, non possiamo più pensare ingenuamente che quello che stiamo postando sia solo una foto o un post. Quello che scriviamo e condividiamo oggi online fa parte di una catena di contenuti che portano verso la costruzione di specifici regimi di verità.

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    sociologo della comunicazione andrea fontana





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