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Culture
"La moda è un mestiere da duri". Dietro le quinte del lusso (Ed. Rizzoli)

Agender, milf, peacocks, shopping online, blogger power. Ma anche sfilate, tic televisivi e guerre di potere dietro le grandi mostre e gli eventi più esclusivi. Il lessico che si rinnova e le battaglie di sempre. Dalla grande crisi del 2008 a oggi, la società del lusso mondiale raccontata da una delle firme più acute e polemiche del costume e della moda italiana. Studi di caratteri, incursioni fra arte e moda, osservazioni e analisi scritti in uno stile trasversale, al tempo stesso colto e leggero, ironico e puntuale, che è diventato a sua volta un marchio. La raccolta – una selezione dei più brillanti contributi per il quotidiano “Il Foglio” – è anticipata da un saggio inedito sui nuovi linguaggi della moda.

FABIANA GIACOMOTTI è giornalista, scrittrice, docente alla Sapienza, autore tv, curatrice di mostre. Nei quotidiani e periodici - testate cartacee e on line - dove ha lavorato (fra cui “Il Giornale”, “Il Mon- do”, “Amica”, “MfFashion”, “Il Foglio”, “Lettera 43” ) ha ricoperto tutti i ruoli, da abusiva a direttore, escluso quello di caporedattore perché è incapace di fermarsi. Ha vinto qualche premio di giornalismo, va orgogliosa per quelli di cucina e per la sua Tarte Tatin. Vive fra Milano e Roma, ha abitato a lungo a Londra.

int la moda mestiere
 

"La moda è un mesterie da duri"
Di Fabiana Giacomotti
180 pagine
18 euro
Ed. Rizzoli


SU AFFARITALIANI.IT UN ESTRATTO DALLA  PREFAZIONE DEL LIBRO

Questo non è un libro di moda. Ceci n’est pas une pipe, avete presente il genere perché l’ha inventato René Magritte che era il mago del trompe-l’oeil, a cui la moda assomiglia molto. Realtà e artificio ben confezionati, meglio se impossibili da distinguere. Questo non è un libro di moda perché racconta tutto quello che della moda appare – la frivolezza, i tic, le crisi di nervi, l’os- sessione per la bellezza – ma anche quello che la moda tende a nascondere: la disciplina militare, la gelida crudeltà e, soprattutto, l’unica ossessione che la domina per davvero, quella per i numeri, i risultati economici. Le bizze di amministratori delegati, imprenditori e stilisti di cui leggete sui media ormai quasi ogni settimana derivano (quasi interamente) da questo genere di pressione, accuratamente dissimulato perché la moda è disposta a pagare il prezzo altissimo della vacuità piuttosto di rischiare quello, letale, della noia ragionieristica. Scatta il diritto all’oblio, si passa oltre, si ride e si festeggia; poi arriva la trimestrale e tutto torna chiaro come il cristallo, e altrettanto tagliente.

Il mondo della moda è molto cambiato da quando, il 7 aprile del 2007, ho iniziato a scrivere sull’inserto culturale del Foglio, in seguito a un invito di Giuseppe Sottile e all’affettuosa bienveillance di Giuliano Ferrara che mi raccoglievano, da quasi dieci anni di direzione di settimanali, mensili e quotidiani, dai quali riemergevo credendo di non essere più capace di fare quello che amavo, scrivere e sperimentare, e di essermi trasformata in una cash cow pubblicitaria. A chi la osserva in prospettiva, la moda continua ad apparire un’allegra carovana di pastorelle e pastorelli Ancien Régime in transumanza perenne fra New York, Londra, Milano e Parigi con le parrucche incipriate nel trolley. Nella realtà, la pressione è tale che tanti mollano dopo il primo stage. Dietro ai sorrisi, la perfezione estetica, i bigliettini vergati a mano e i fiori, si vive a un ritmo simile a quello di una trade room di Wall Street, ma sui tacchi e senza grassi hamburger di conforto, perché fuori c’è un mondo che si è abituato a volere quel che vede in passerella subito, a poco prezzo e senza alzarsi dal divano ma che, prima di comprarlo, vuole vederlo addosso a una pletora di bellissimi, giovanissimi, slanciatissimi che lo “influenzino” abbastanza da digitare il numero della carta di credito. L’on-line ha cambiato e distorto per sempre il ritmo della produzione e della vendita di moda, naturalmente anche fra le riviste specializzate che, per resistere, si sono trasformate in agenzie a servizio completo, fornendo creatività pubblicitaria e organizzazione di eventi. Dieci anni fa, quando cominciavano a uscire gli articoli di questo libro, sembrava che alla moda, e in particolare al made in Italy, si fosse spalancato il mondo intero, dal Sudamerica all’Australia un unico centro commerciale di lusso. Oggi, le migrazioni bibliche e il terrorismo hanno cancellato– chissà fino a quando – interi paesi dalla mappa del consumo; gli stilisti dei grandi brand si licenziano, e ridimensionano i propri sogni al livello di una piccola sartoria perché stremati dall’ansia di competere con lo stesso fast fashion che li copia; la Cina ha mostrato di essere meno vicina di quanto si credesse e in Brasile è rimasta solo un’amica PR che ci vive benissimo per motivi suoi.

Questo libro racconta la moda, e la società che le ruota attorno, per quello che è: un inestricabile mix di fiuto affaristico, cultura eterogenea, amore per lo spariglio; per quello he vuole essere, pura arte, e per quello che non vi hanno mai detto, perché tutti hanno troppo da perderci. “La moda senza stress non è moda.” E nulla è politicamente più scorretto di lei. Predica un’inclusione che si guarda bene dal perseguire, ostenta una naturalezza che in realtà detesta. La moda idolatra l’iperbole, postula la sofisticazione. Il normale, il banale non esistono. La moda adora o detesta. Oggi come ieri, domani come dieci, venti o cinquant’anni fa, tra chi inventa ogni giorno immagini di seduzione, icone del desiderio, una sola cosa conta, ed è la bellezza. Non quella ideale teorizzata da Platone, l’idea del Bello che è ultimo grado della conoscenza, ma quella più pericolosa, scivolosa, inafferrabile del momento. La bellezza qui e ora, hic et nunc; la bellezza “esperienziale”, per dirla con un termine molto in voga fra i direttori di boutique. (...)

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