Culture
"La profezia perduta di Dante", il nuovo giallo storico (e romantico) di Fioretti

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LA TRAMA - Dante ha solo diciotto anni quando si innamora di Beatrice, ma la giovane è promessa sposa a ser Mone dei Bardi. Il loro è, dunque, un amore impossibile. Per distoglierlo dalla sua insana passione, Guido Cavalcanti, amico fraterno dell’Alighieri, lo convince ad accompagnarlo a Bologna, per seguire le lezioni dell’aristotelico fiorentino Taddeo Alderotti. Ma quando i due arrivano in città, Malatesta da Verrucchio, signore di Rimini, li manda a chiamare in gran segreto. Lo spettacolo che li aspetta una volta raggiunto il luogo dell’appuntamento è terribile: due cadaveri abbracciati nel rigor mortis. Sono Paolo e Francesca, trafitti da un unico colpo di spada. Dante e Guido sospettano subito di Gianciotto, marito di Francesca e fratello maggiore di Paolo. Ma il podestà di Pesaro sembra essere ancora all’oscuro di quel delitto. Il Malatesta esorta allora il Cavalcanti, in nome della sua antica amicizia con Paolo, a indagare nell’ambiente fiorentino. Quando era Capitano del Popolo a Firenze, Paolo aveva stretto contatti commerciali con alcuni banchieri fiorentini legati ai Cerchi e ai Portinari. Chi, nella città del Fiore, poteva desiderare la sua morte e quella di Francesca? Sarà Dante a sciogliere l’enigma, prima di immortalarlo nei versi più belli della Divina Commedia.
L'AUTORE: Francesco Fioretti - È nato a Lanciano, in Abruzzo, nel 1960. Siciliano e apulotoscano d’origine, si è laureato in Lettere a Firenze e ha insegnato in Lombardia e nelle Marche. Nel 2012 ha conseguito il dottorato presso l’Università di Eichstätt in Germania, con tesi in corso di pubblicazione sullo Stilnovo di Dante e Cavalcanti. Ha pubblicato saggi critici e antologie scolastiche. Con la Newton Compton ha esordito nel 2011 con Il libro segreto di Dante, che ha subito scalato le classifiche italiane: è rimasto per mesi tra le prime posizioni nella classifica, riscuotendo anche un notevole successo di critica. I diritti di traduzione sono stati venduti in 7 Paesi. Nel 2012 ha pubblicato, sempre con la Newton Compton, Il quadro segreto di Caravaggio.
IL BOOKTRAILER
UN ESTRATTO DAL SECONDO CAPITOLO:
© NEWTON COMPTON EDITORI
“Sposare Gemma, o non sposare Gemma: questo l’atroce, straziante dilemma”, pensò, come spesso gli capitava, in endecasillabi a rima baciata. E non era certo per i duecento pìccioli, per carità! O forse invece, ma in tutt’altro senso, era proprio per quei duecento pìccioli, ai quali non riusciva a rassegnarsi...
Sua sorella, la Tana, la Totta, Gaetanotta la Trotta – “trottola uh, la trottolina lesta...” – se n’era andata a vivere infine – “trottando lieve, trottolando mesta...” – col suo bel riccomanno, che omen nel nomen: “riccuomo” appunto, come diceva il cognomen, il Lapo Riccomanni, strozzino di sani principi, sciacallo di saldi valori morali, e che bel matrimonio alla fin fine – e patrimonio – quello della Totta! Il riccomanno aveva munto agli Alighieri più di trecentosessanta fiorini d’oro di dote, una cifra da ca- pogiro, una trentina di volte quella che il suo futuro suocero, Manetto Donati, inaridito ramo di florida pianta, era stato disposto a depositare in banca per il matrimonio che lui avrebbe dovuto decidersi, prima o poi, a celebrare con Gemma, Gemma Donati, la sua promessa: una misera dozzina di fiorini, questo valevano i duecento pìccioli, una cifra che certo non avrebbe invogliato nessuno ad affrettare le nozze...
Fame, adesso poi ci si metteva anche la fame... Fastidiosa come un rimorso! Bisognava dimenticarsela al più presto, la fame.
Duecento pìccioli, questo dunque valeva lui: era stato valutato dodici fiorini d’oro, alla stipula del patto nuziale. “Un’occasione da non perdere, donne! Per una manciata di spiccioli potete accaparrarvi il Durante, colui che dura; o il Dante, colui che dà. Un Aligero per giunta: un portatore d’ali!”. Nomina sunt – soleva dire – con- sequentia rerum: i nomi sono tutt’uno con le cose che designano... “Un Dante Aligero Durante, tenacemente svolazzante, che dura e vola, che vola e dà, a soli dodici fiorini, udite udite donne: è forse meglio un riccomanno solo, di trenta Dante Alighieri allo stesso prezzo?”. Non era tanto per Gemma che la cosa non gli andava a genio, povera Gemma, che era pure carina e di bei modi. Ma in quei dodici miseri fiorini la sua anima immortale stava stretta. Era una stima del suo valore, il suo prezzo di mercato, per così dire, e questo non gli andava proprio giù: aveva solo voglia di sovvertire ogni destino, di mandare all’aria il corso stesso della storia, di chiudere tutte le sorti di tutti in un otre, agitarlo ben bene, risparpagliarle poi ai quattro venti, di qua, di là, di giù, di su...
Rifare daccapo il mondo, rifarlo tutto di parole...
Fame, brutta alla fine la fame: per ora il suo obiettivo era solo dimenticarsi la fame... Si trovava in quegli anni, diciottenne, nella felice e rara condizione di vivere da solo, mentre il fratellastro Francesco, comproprietario dei suoi beni, abitava un po’ con la madre – a lui matrigna – in una casa dei Cialuffi, un po’ invece nel casolare di entrambi a Sant’Ambrogio. La Tana e il Francesco (che Dio li salvi!) si occupavano ancora di lui, quando poteva andava a mangiare dalla sorella, più raramente dalla matrigna. Però, adesso che era diventato maggiorenne, doveva occuparsi degli affari lasciati in sospeso dal babbo alla sua morte, qualche debito da pagare, qualche credito da riscuotere: spesso si limitava a mettere in contatto tra loro debitori e creditori, per far saltare un passaggio a tutto quel girovagare incongruo del denaro che passava inutilmente anche attraverso le sue mani. Una mania che aveva attecchito tra i suoi concittadini e contagiato anche suo padre negli ultimi anni: quella di comprare e vendere denaro speculando su piccole differenze nel tasso d’interesse. Lui invece era portato per altre cose: gli odori, i sapori, il rumore di fondo della vita, del mondo, i vizi umani e il valore. E poiché non aveva sempre voglia di pesare sui suoi fratelli, spesso restava a casa anche quando non c’era niente da mangiare.
In quei casi usava la strategia dell’oblio: dimenticarsi la fame. A volte funzionava, a volte no. C’erano tre cose che gli facevano perdere completamente il contatto col proprio corpo, con tutte le sue urgenze, appetito incluso: la prima era leggere, sprofondare in un libro con tutto se stesso. Allora non s’accorgeva più del continuo vociare che proveniva dalla strada, era come se il suo spirito si liberasse in un altro mondo, adiacente al nostro ma abbastanza lontano da non avvertirne più la polifonia dissonante; la seconda era scrivere, e allora il suo intelletto s’immergeva totalmente in quello universale, a caccia di concetti o immagini da portare alla luce in for- ma di parole; l’ultima era disegnare, volti angelici o umani, e allora si dimenticava proprio tutto, passava ore a preparare la tavoletta, poi a tratteggiare il disegno. An- geli soprattutto gli piaceva fare, e avevano visi di donna, li disegnava nell’atto di portare anime in Paradiso, e i beati non erano che neonati, creature innocenti, tra le braccia d’una madre...
L’infante che si salva, se si salva, d’ogni vita umana...
Bice. L’angelo che stava disegnando adesso si chiamava Bice, l’anima che portava in cielo era un bambino di pochi anni, con un viso che poteva somigliare al suo, quando era piccolo. Una mamma celeste della sua anima immortale, ecco, strappata finalmente a quei dodici fiorini di ingombro corporeo e sollevata in cielo. Essere portato in alto da Bice, al di sopra delle nubi, e dimenticare tutto... Si ricordò la prima volta che l’aveva vista... Non rammentava bene quando, il libro della memoria è sempre così squinternato, i fogli volano via, a volte se ne trova uno da qualche parte, staccato dagli altri, e reimpagi- nare per bene il quaderno è quello che volgarmente si dice “ricordare”. Un foglio volante, un’immagine senza contesto: un volto, una chiesa, gente vestita di nero. Il volto di Bice a quanti anni? Era piccina, certo, la chiesa era San Martino del Vescovo, quella solita degli Alighieri. Quell’attimo era rimasto impresso nella sua mente, il volto di lei bambina, i suoi occhi così belli, così tristi, che lo guardavano in un modo che non avrebbe mai potuto dimenticare. “Compassione” non era la parola esatta. Si ricordava che lui si stava alzando da terra, d’intorno aveva facce adulte preoccupate; quando aveva in- crociato il suo sguardo, lei al fianco del padre Folco, i loro occhi s’erano scrutati per un istante interminabile. Quell’immagine si era impressa assai profondamente nella terza camera del suo cervello, dove ha sede la memoria. Il cassero della mente. Nove anni? Sì, potevano essere nove anni. Lei indossava un bel vestitino rosso. E lui aveva appena capito, da quello sguardo, che lei sapeva. Sapeva cosa? Non se lo ricordava, eppure era certo che lei avesse appreso in quell’attimo un suo segreto profondo, chissà quale, e che nessun’altra donna avrebbe mai potuto conoscerlo così. Dovunque li avrebbe portati poi la vita, quell’istante, lo intuiva, li aveva legati per sempre.
A nove anni a nessuno che sia dotato di senno verrebbe in mente di chiamarlo amore. Poi ne erano passati altri nove, aveva incrociato di nuovo il suo sguardo e per la prima volta aveva sentito la sua voce: «Salute». Uno sguardo molto diverso dal primo, che questa volta pre- tendeva qualcosa d’incomprensibile, come se adesso fosse lei ad avere un segreto da offrirgli in cambio, un segreto che lui avrebbe dovuto decifrare e custodire nel cuore fino alla fine del tempo. Un disegno, una premo- nizione, un cerchio che si sarebbe chiuso solo al termine delle loro vite. E poi il sogno, in cui lui la nutriva del proprio cuore per tenerla in vita, come aveva detto Cavalcanti nella sua risposta al sonetto che aveva scritto. Bice aveva bisogno del suo amore per sopravvivere? Era questo che voleva dirgli? Era contento da matti d’aver fatto così la conoscenza di Guido, una decina d’anni più grande di lui, il migliore a Firenze, un’amicizia preziosa che non si concedeva a tutti: aristocratico sdegnoso, al- tero, colto e brillante, che si dava però solo a chi riteneva alla portata della sua altezza d’ingegno... E, non cu- randosi affatto di quei dodici miseri fiorini della sua quotazione corrente, Guido aveva giudicato lui, Dante, degno della sua ineguagliabile amicizia.
Voleva scacciare dalla propria mente, e non ci riusciva, oltre alla fame, il pensiero di Bice. C’era Viola nella sua vita, adesso, e monna Gemma da sposare, Bice proprio non ci voleva a complicare ulteriormente le cose. C’era monna Viola, Violetta che all’ombra d’Amore incontrava segretamente a Pagnolle, nella casa di campagna degli Alighieri. Non sapeva dire se era amore o cos’altro, non pretenderete da un diciottenne che abbia le idee chiare... A quell’età cosa succede? Qualcosa di fastidio- so come la fame s’è impadronito all’improvviso del suo corpo, non c’è un adulto a cui chiedere cos’è, c’è invece una ragazza il cui sorriso è un invito, qualche poesia provenzale che parla d’amore e trattati medici a iosa che spiegano come guarirne: questo è tutto. Per il resto bisogna cavarsela da soli, mettere d’accordo quella tempesta di venti contrari col vocabolario sempre inadeguato che ne parla. “Amore” è solo una parola, lui ancora non se la sentiva di sprecarla. Le poesie che aveva scritto per monna Viola preferivano parlare di “desiderio”. Proprio come succedeva con la fame: quando se ne ha troppa, si è grati al cibo che la sazia senza neanche chiedere se ci piace davvero.
Disegnava l’angelo, il volto di Bice: lei lo aveva salutato e a lui era sembrato di spolverare con la mano il cristallo un po’ appannato del settimo cielo. Quasi s’invidiava per il fatto che avesse salutato proprio lui: “beato te”, si scoprì a dire. Bice che bea, la beatrice. Si disse che da allora in poi l’avrebbe chiamata così. Si stava innamorando?
(continua in libreria)