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Libri, Bruno Nacci: "Così il male si annida nella storia"

Hitler, Pol Pot, Seneca, il generale Nguyen Ngoc Loan e l’architetto del Führer. Che cosa unisce questi personaggi oltre al fatto di essere riconosciuti come i grandi malvagi della storia? Una riflessione sul male, sulle sue radici, sulla sua evoluzione e sulla sua ineluttabilità. Destini, il nuovo libro di Bruno Nacci edito da Ares, è uno spiazzante viaggio nel territorio del male, attraverso vite di personaggi che la storia ha condannato, in misura variabile, per le loro nefandezze. La lente d’ingrandimento di questi cinque racconti «a tema» fissa in un momento preciso queste tragiche esistenze: quando non erano ancora al culmine del potere o quando ormai il potere li aveva abbandonati. Conosceremo così il giovane Hitler che dormiva in un dormitorio per senzatetto, gli anni universitari di Pol Pot, quando era un promettente calciatore e nessuno avrebbe potuto immaginare il suo futuro sanguinario, e, ancora, gli ultimi istanti di Seneca prima del suicidio impostogli da Nerone e la prigionia a Spandau di Albert Speer, che girovagava in modo ossessivo nel cortile del carcere immaginando un interminabile viaggio da un continente all’altro. 

Riprendendo una celebre espressione di Hannah Arendt, Bruno Nacci ricorda che il male più che banale è sempre in agguato nelle pieghe di una metamorfosi che non riguarda solo lontani esempi storici, ma la vita di oggi di tutti noi: «Ho scritto i racconti nell’arco di una quindicina di anni, mosso dal desiderio di ritrarre grandi personaggi della storia ricordati come negativi, ma colti prima o dopo che erano stati al potere. In altre parole, volevo indagare, sulla base di elementi storici plausibili, che tipi d’uomo fossero stati o erano diventati. Era possibile leggere in loro le premonizioni di quello che sarebbero diventati? O trovare in seguito le tracce del loro passato? Ogni racconto è un piccolo viaggio nella normalità di uomini che erano vissuti in una dimensione fuori dalla normalità. Ma questo, tutto sommato, mette sotto accusa il concetto stesso di normalità».

 

Destini. La fatalità del male. Per Hannah Arendt era la banalità del male, c'è un nesso?
«Condivido con la Arendt l’idea che non esistano i mostri, anche se per motivi quasi opposti. Per lei, almeno nel caso Eichman, abbiamo a che fare con un esempio di mancanza assoluta di percezione delle conseguenze dei nostri atti. In altre parole, il grande burocrate che amministrò lo sterminio nei campi di concentramento, per la Arendt non era mosso da intenzioni malvage ma da una sorta di passivo adeguamento a una funzione di cui non riusciva a cogliere gli esiti reali. Per lui, smistare treni di deportati o treni che trasportavano bestiame era la stessa cosa. A parte alcune contestazioni che le sono state rivolte giustamente sulla presunta indifferenza di Eichman ai contenuti ideologici dello sterminio (che era poi quello che lui voleva far passare come attenuante), io credo che esista una fatalità del male difficile da definire e anche da indagare. Per fatalità non intendo necessità. Intendo che in certe vite (o in tutte?) le scelte che vengono fatte sembrano dettate da una specie di vocazione a cui è difficile sottrarsi. Non impossibile. Per cui, nei casi estremi, che sono quelli di cui mi sono occupato, sembra di assistere a una metamorfosi naturale dell’individuo le cui cause sfuggono a noi come sono sfuggite a lui stesso».

 

Come mai proprio questi personaggi e quanto c'è di vero (anche se la nota a fine libro lo spiega)?
«
Ho dedicato a ogni personaggio ricerche e letture storiche puntuali. Poi, si capisce, l’immaginazione e la logica narrativa hanno fatto il loro corso, ma senza mai contraddire i dati della realtà, almeno quelli essenziali. I personaggi sono stati scelti o perché mi sono capitate tra le mani storie interessanti (come quella del generale vietnamita Loan), o perché ero affascinato da personalità drammatiche che mostravano caratteri e circostanze ricche di suggestioni narrative (come Speer, Pol Pot, Hitler), oppure, come nel caso di Seneca, perché stregato dalla contraddizione tra una mente così profonda e il suo coinvolgimento in bassezze criminali».

 

Qual è la riflessione sul "male" che accompagna tutta la lettura e che resta una volta finito il libro? Il male che vive nei famosi personaggi storici è un tema anche molto affascinante.

«Condivido pienamente, sul piano teorico, la riflessione che Kant svolge (La religione entro i limiti della semplice ragione) su quello che chiama «il male radicale», cioè la tendenza dell’animo umano a sottrarsi alla legge morale, una tendenza che però non cancella la responsabilità di esercitare il libero arbitrio. Certo, è straordinario seguire il giovane Pol Pot negli anni universitari trascorsi a Parigi, matricola spensierata, cordiale, servizievole, generosa, e confrontarlo con ciò che è diventato. Nel racconto ho voluto evidenziare questa crepa che a un certo punto si manifesta in tutta la sua allarmante pericolosità. Il male è più affascinante del bene (basta vedere la quantità spaventosa di film, libri, e via dicendo che ruotano esclusivamente attorno a personaggi e comportamenti malvagi, anche se poi non sempre la rappresentazione sembra essere in grado di distinguere il bene dal male) perché mette a nudo l’essere umano nelle sue debolezze, e in questo noi ci riconosciamo molto più che se fossimo davanti alla virtù, qualcosa per noi di quasi incomprensibile e irraggiungibile, in quanto sembra estranea alla nostra esperienza».

 

Quale aspetto di questi grandi cattivi reali l'ha sempre intrigata di più, portandola ad interrogarsene?

«L’esempio più facile è quello di Albert Speer, per anni al vertice del potere nazionalsocialista. Colto, raffinato, lucido, l’incontro casuale con Hitler, se posso permettermi un paragone quasi blasfemo, mi fa venire in mente l’episodio narrato nei vangeli di Gesù che viene tentato dal demonio, che gli offre tutti regni della terra. Speer a differenza di Gesù, accettò. Da quel momento, pur rimanendo se stesso, vigile e critico (in questo trovo una forte somiglianza con Seneca e il suo rapporto con Nerone), restio a mescolarsi con altri gerarchi più rozzi e brutali ma anche astuto nel cercare di estrometterli a proprio vantaggio, egli si compromette con una politica efferata che non cessa mai di condividere. Mi ha intrigato il contrasto o la contraddizione tra un’intelligenza viva come la sua e una volontà corrotta, di cui fu sempre consapevole. Così come mi ha intrigato la storia di Loan, il capo della polizia vietnamita nel Vietnam del sud, crudele aguzzino, che finisce i suoi giorni come un anonimo proprietario di ristorante in Virginia. Anche se qui accade qualcosa destinato a sconvolgerne la vita, ma anche la nostra conoscenza dei fatti. Questo però non lo svelo, per non togliere il piacere della lettura».

 

 

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