Economia
Da Armani a Tod's, il Made in Italy nel mirino della fast fashion: i marchi cinesi che esportano in tutto il mondo incubo dei colossi della moda. E Urso corre ai ripari
Il ministro del Made in Italy Urso ha convocato un tavolo con tutti i rappresentanti della moda per fare il punto sulla situazione per far fronte alla fast fashion

Shein avrebbe aumentato la quota di mercato relativa alle vendite di prodotti fast fashion negli Usa dal 12% del 2020 fino al 65% nel 2024
Ha destato molto stupore la recente decisione della Procura di Milano di mettere in amministrazione giudiziaria la Tod’s per caporalato e sfruttamento della manodopera. L'accusa è pesante ed ha riguardato negli scorsi mesi, anche altri marchi importante del made in Italy, come Armani, Loro Piana, Valentino e Alviero Martini. Secondo le grandi case di moda le accuse sono del tutto ingiustificate. Diego Della Valle patron di Tod’s, durante una conferenza stampa, ha respinto al mittente le accuse, assicurando che l’azienda fa controlli molto accurati su tutta la filiera per quanto riguarda le partiche di produzione e il trattamento dei lavoratori.
Ma il vero problema della moda europea, non solo italiana è rappresentato, secondo gli esperti del settore, dalla concorrenza sleale del cosiddetto fenomeno del fast fashion, esportato in tutto il mondo dai nuovi marchi cinesi della moda online come Shein e Temu. Sono i nuovi siti di moda online che fanno impazzire i giovani di mezzo mondo, grazie ad un modello di moda usa e getta, con capi cambiati alla velocità della luce ed a prezzi stracciatissimi. Magliette a 3 euro, pantaloni a 5 euro, costumi a 1,40 euro. Solo il sito Shein avrebbe 150 milioni di utenti nel mondo, a cui propone circa 6000 nuovi capi ed accessori ogni giorno. Un sistema che ha letteralmente messo a soqquadro il mercato della moda di qualità, in cui il nostro paese eccelle da decenni. Questo certo non giustificherebbe eventuali condotte scorrette delle aziende italiane, ma pone il problema di come far fronte a chi, come i cinesi, può produrre con regole totalmente differenti, rispetto a quello europee. Secondo le rilevazioni di Bloomberg Second Measure, Shein avrebbe aumentato la propria quota di mercato relativa alle vendite di prodotti fast fashion negli Stati Uniti dal 12% del 2020 - anno in cui è cominciata l’ascesa del sito - fino a raggiungere il 65% nel 2024.
Il suo fatturato lo scorso anno ha toccato 49 miliardi di dollari, su del 50% superando marchi come H&M e Zara. nel 2025 le vendite del colosso cinese hanno avuto una brusca battuta di arresto con l'esenzione de minimis per i piccoli pacchi di piccolo valore, voluta da Trump. Ed è per questo che il ministro Adolfo Urso ha chiesto prima al parlamento italiano e poi alla commissione europea di agire ed approvare contromisure per limitare l’ingresso di questi prodotti in Europa, per fermare quella che viene definita come una evidente concorrenza sleale verso i principali marchi della moda Made in Italy. Il fast fashion costringe i marchi del lusso italiani a stare al passo con i ritmi vertiginosi imposti dai siti online cinesi della moda, producendo capi a prezzi concorrenziali e affidandosi per questo a terzisti, che in alcuni casi adottano pratiche di lavoro poco consone agli standard lavorativi e di sostenibilità ambientali richiesti dall’unione europea. Il cambio a ritmi velocissimi di abiti infatti produce danni all'ambiente aumentando a dismisura la quantità di rifiuti.
Secondo Greenpeace, ogni anno nella sola Europa vengono gettati via 5 milioni di tonnellate di vestiti e calzature (circa 12 chili a persona in media). Questo vuol dire che in media ogni secondo un camion carico di vestiti viene bruciato o inviato in discarica. Un ritmo assolutamente insostenibile. Il ministro Urso, ministro del Made in Italy, ha subito convocato un tavolo con tutti i rappresentanti della moda per fare il punto sulla situazione ed approntare le doverose contromisure e convocando un tavolo sulla moda al ministero per il prossimo 17 novembre. Due giorni fa è arrivato il via libera della IX Commissione del Senato c’è la certificazione del processo produttivo per le imprese del settore della moda, che potranno così ottenere il bollino di “Filiera della moda certificata”, di validità annuale e da mettere in mostra nell’ambito delle attività promozionali.
Il sistema anti-fast fashion prevede che le aziende si sottopongano volontariamente alle verifiche da parte di soggetti abilitati sulla regolarità contributiva, fiscale e giuslavoristica lungo tutta la filiera, dalla capofila ai subfornitori. Urso dopo avere ricevuto il ringraziamento della moda italiana per la prontezza di azione (Diego Della Valle lo ha personalmente ringraziato per la solidarietà subito espressa verso il suo gruppo, a seguito delle accuse della Procura di Milano) ha chiesto all’Europa che intervenga come già fatto con il settore siderurgico, con l’imposizione di dazi per fermare l’importazione selvaggia di questi capi di abbigliamento dalla Cina.
Resta da capire ora quanto siano fondate le accuse del Pm Paolo Storari, titolare delle indagini su diverse case di moda. Secondo l’accusa alcuni marchi del lusso tra cui appunto Tod's, Loro Piana, Valentino e Armani, avrebbero ribaltato alcune forniture di capi di abbigliamento ad aziende cinesi, che sfruttano i lavoratori, costretto a lavorare in nero in ambienti lavorativi senza nessun rispetto delle regole igienico sanitarie richieste dalle leggi vigenti.
Inoltre, sempre secondo le accuse le indagini riguardano comunque marchi del lusso, che poco avrebbero a che fare con il fenomeno del fast fashion. Ma è altresì chiaro che la possibilità di cambiare velocemente abiti a basso prezzo vada ad incidere immancabilmente anche sulla moda pret a porter di questi march, inducendoli a stare al passo con la concorrenza e produrre in serie in maniera sempre più veloce e a prezzi per quanto possibile contenuti.
Insomma comunque la si guardi è innegabile che come per il mercato dell'auto o quello della siderurgia, la concorrenza cinese sta sottoponendo i marchi europei a notevoli stress produttivi. Ed è da inserire in questa ottica il duro intervento che il ministro Urso ha fatto per sensibilizzare le istituzioni italiane ed europee ad agire, prima che, come sembra già essere accaduto per l’automotive, non sia troppo tardi.
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