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Economia
Disoccupazione, dalle decontribuzioni ai pensionamenti: le soluzioni
Italia al terzo posto sul podio delle nazioni con i più alti indici di disoccupazione generale, giovanile e femminile, dopo Grecia e Spagna

di Piero Righetti

Giornali e mass media hanno dedicato titoloni e pagine intere all'allarme lanciato da Tito Boeri: "i nati negli anni '80 andranno in pensione a 75 anni e con importi molto ridotti".
Era un po' di tempo che Boeri non occupava le prime pagine dei giornali. Ed ecco che, approfittando dell'invio delle prime "buste arancioni" - un avvio molto limitato, visto che si parla per il momento soltanto di 150.000 lettere - il Presidente dell'Inps ha lanciato questo "allarme" destinato a realizzarsi, sempre che si realizzi davvero, non prima di 30/35 anni da oggi. I sindacati hanno subito parlato di "terrorismo" psicologico ed istituzionale.

Molti dei diretti interessati intervistati su questo pericolo futuro hanno sottolineato - a mio avviso molto opportunamente - che il loro "primo e vero problema oggi" non è quello della pensione, ma quello di riuscire a trovare un posto di lavoro, possibilmente stabile e retribuito in modo decente.
Ecco, queste sono le osservazioni che colgono quello che rimane ancora - ammesso che non sia da considerare addirittura peggiorato - il più grosso problema della nostra società, quello della disoccupazione giovanile che in Italia è davvero altissima. Al di là delle cifre ufficiali, che si alzano e si abbassano di mese in mese come le onde del mare e che, per come vengono determinate, non possono comunque considerarsi del tutto attendibili, è indubbio che in Italia 2 giovani su 3 - e, in alcune regioni del Sud, anche più di 1 su 2 - non hanno un posto di lavoro e molti di quelli che ce l'hanno parlano di contratti anche di 20-30 giorni, retribuzioni da fame, orari pazzeschi, sfruttamento.

Su questo siamo tutti d'accordo e visto che siamo già in tempo di Olimpiadi va detto, purtroppo, che nessuno ci toglie in Europa il terzo posto sul podio delle nazioni con i più alti indici di disoccupazione generale, giovanile e femminile, dopo Grecia e Spagna. L'unico pericolo (!) sembrerebbe venire dal Portogallo.
Al di là delle battute, si tratta di un problema veramente grave e di difficilissima soluzione. Va considerato infatti che, oltre a quelli che sono i tassi ufficiali della disoccupazione giovanile e di quella femminile, al numero di coloro che sono iscritti, spesso inutilmente, nelle ex liste di collocamento va aggiunto il numero elevatissimo, 2 milioni 500 mila circa, dei NEET (chi non studia, non lavora né cerca ufficialmente un'occupazione) e di quelli, soprattutto donne, che, impossibilitati ad occuparsi si reiscrivono all'Università per una seconda laurea o per un master spesso costoso quanto inutile.

Bankitalia, Padoan, Poletti, e, qualche giorno fa, Draghi hanno sottolineato che questi giovani (e non solo loro) rischiano concretamente di diventare "una generazione perduta".
A parte infatti il più grande ammortizzatore sociale italiano e cioè l'aiuto economico dei genitori che lavorano e dei nonni pensionati - e quindi la cerchia familiare -  non c'è ancora in Italia uno strumento concreto ed efficace in grado di bloccare prima e di ridurre poi progressivamente il numero dei giovani senza lavoro.
E' vero, l'innalzamento "violento" dell'età pensionabile ha sicuramente aggravato questo problema, ma è da superficiali, credo, ritenere (o sperare) che la possibilità di un pensionamento anticipato di 3/4 anni possa davvero incidere concretamente sulla disoccupazione giovanile. A parte i costi e la macchinosità dell'operazione, che non è assolutamente nuova (di "staffette generazionali" si parla e si scrive nelle leggi almeno da 10/15 anni) l'esperienza ha dimostrato che pochissimi sarebbero i posti che si renderebbero liberi in questo modo e ancor meno le assunzioni di giovani. Le imprese, in periodi di crisi, se devono sostituire un anziano che cessa di lavorare ricorrono prima di tutto ad aumenti dell'orario di lavoro o a modifiche dei turni e solo in un secondo tempo chiamano cassintegrati o propri dipendenti occupati part-time. Nuove ed effettive assunzioni quindi possono avvenire solo successivamente, in presenza di un'economia più stabilizzata almeno nel medio termine e in presenza di forti decontribuzioni, come quella triennale terminata nella misura intera il 31 dicembre 2015 e che ha avuto, per il bilancio dello Stato, costi altissimi.

Molti esperti della materia - al di là delle speculazioni politiche che non mancano mai - sostengono che senza queste forti decontribuzioni il Jobs act si sarebbe rivelato praticamente di "utilità zero" per ciò che concerne almeno la disoccupazione giovanile. Ed io mi trovo d'accordo con questa tesi anche perché è del tutto mancato finora un qualsiasi concreto intervento di politica attiva del lavoro. Uno snodo questo che potrebbe essere veramente importante e per realizzare il quale è stato addirittura istituito un nuovo Ente nazionale, l'Anpal e cioè l'Agenzia Nazionale per le politiche attive del lavoro di cui nessuno oggi sa più qualcosa. A dire la verità più che di un ente veramente nuovo si tratta di un riciclaggio di alcuni di quelli già esistenti, a cominciare dall'Isfol, da Italia Lavoro, da un'intera Direzione Generale del Ministero del Lavoro e da nuove banche dati che finirebbero soltanto con l'aumentare il numero altissimo di quelle già esistenti - tra Istat, Inps, Inail e Ministero del Lavoro - rivelatesi quasi sempre inutili e non in grado di "parlare" tra loro.

Gli ostacoli alla risoluzione o all'attenuazione dei problemi della disoccupazione giovanile non finiscono però qui. Basta pensare infatti a questi altri aspetti del nostro mercato del lavoro:
molte persone, soprattutto uomini, scelgono di restare al lavoro anche dopo aver maturato il diritto alla pensione per due motivi principali: importi bassi della pensione e necessità di continuare a lavorare proprio per poter aiutare economicamente i propri figli disoccupati;
il lavoro nero ha sempre più spazio (l'esperienza più recente dei voucher insegna), alimentato dai costi fiscali e previdenziali altissimi e da tanta manodopera extracomunitaria pronta ad accettare, pur di vivere, retribuzioni da fame;
i robot, già oggi e ancor più in prospettiva, sostituiscono, a costi certi e più ridotti, la manodopera meno qualificata e, a breve, anche quella maggiormente qualificata ma addetta a lavori comunque ripetitivi e programmabili;
la delocalizzazione, conseguenza diretta dell'elevatissima tassazione italiana, è tutt'altro che in diminuzione.

A proposito dei robot va comunque sottolineato un fatto: è vero i robot, sempre più perfezionati, stanno togliendo sicuramente molti posti di lavoro, per così dire tradizionali e ripetitivi, ma molti anche ne stanno creando di nuovi e per compiti altamente qualificati.
E' un po' quello che successe con l'invenzione della stampa a caratteri mobili che fece scomparire mestieri antichi come quello degli amanuensi e di tutto ciò che a questa professione era strettamente collegato, ma creò moltissimi nuovi posti di lavoro e diede un impulso fondamentale al grado di cultura di quell'epoca e alla lotta all'analfabetismo. Un po' come sta avvenendo oggi con tutti i nuovi strumenti informatici, piccoli robot, big data, internet e stampanti 3D, di cui si sono immediatamente impadroniti i nativi digitali.

Restano da sottolineare da ultimo altre tre cose:
1) il sistema produttivo italiano, tranne rare anche se bellissime eccezioni, è ormai troppo vecchio e troppo poco competitivo sul piano internazionale;
2) il collegamento scuola-lavoro è ancora troppo debole e limitato; se funzionasse bene potrebbe avere un peso davvero importante;
3) il ruolo dei sindacati, se resta quello di oggi, e cioè immobile da 10/15 anni, è ormai del tutto superato e destinato al solo settore dei pensionati (che già sono più della metà degli attuali iscritti); nuove realtà come il lavoro agile (o smart working), la riduzione progressiva degli organici di tutte le aziende, ormai proiettate verso Industria 4 (e cioè verso la 4° rivoluzione industriale) e le nuove tipologie lavorative necessitano di un totale ripensamento delle loro funzioni e del loro sistema organizzativo.

Dunque il quadro della disoccupazione giovanile è grave, anzi gravissimo, ma molto, anzi moltissimo si potrebbe e dovrebbe fare, ma in concreto e rapidamente, invece di perdere tempo - un po' tutti - a rimestare l'acqua nel mortaio come avviene quando si parla di proiezioni pensionistiche a 30/35 anni da oggi - senza tener conto che l'aumento dell'attesa di vita è comunque una realtà - o a strumenti di limitata e/o difficile attuazione come è quella delle varie "staffette generazionali" o di iniziative similari.

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