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Economia
Fca, la sede fiscale nella City? Elkann ha risparmiato 60 milioni in 5 anni

Correva il 2014 quando Sergio Marchionne, numero uno del gruppo Fiat, annunciava la nascita di Fiat Chrysler Automobiles, all’epoca ottavo maggior produttore automobilistico mondiale, commentando: “E' il più importante della mia carriera”. Un risultato, gli faceva eco il presidente John Elkann, ottenuto dopo “dieci anni di ricerca per dare a Fiat soluzioni che le assicurassero di avere il proprio posto tra i costruttori”. Nelle postille dell’annuncio si segnalava che la sede legale del nuovo gruppo sarebbe stata l’Olanda, quella fiscale il Regno Unito. 

Una doppia sede del tutto analoga a quella adottata dalla “cugina” Cnh Industrial (nata l’anno prima dalla fusione tra Cnh Global e Fiat Industrial), che venne subito spiegata, per la parte legale, con l’esigenza di sfruttare una normativa sulla governance aziendale che consentiva l’adozione di un sistema di voto doppi favorevole agli eredi Agnelli, che con Exor possedevano e possiedono il 28,66% del capitale ma controllano il 42,44% dei diritti di voto (nel caso di Cnh Industrial, Exor col 26,89% del capitale controlla il 42,22% dei diritti) controllando così la società senza bisogno di lanciare un’Opa come prevederebbe la legge italiana in caso di controllo di oltre il 30% del capitale.

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Per la parte fiscale la motivazione fu ancora più elementare: il sistema inglese tassa di meno i dividendi maturati all’estero rispetto alla legislazione italiana, non tanto a livello societario quanto di singoli azionisti. Per quanto riguarda l’imposizione per gli azionisti, infatti, i dividendi distribuiti da società fiscalmente residenti nel Regno Unito (come Fca) non sono normalmente assoggettati a ritenuta d’imposta, mentre i dividendi percepiti sono soggetti ad imposizione in base alle regole dei paesi di residenza degli azionisti medesimi.

L’operazione, ha ripetuto ufficialmente più volte Fca, fu fiscalmente neutra per il gruppo che per quanto riguarda le attività italiane di Fiat (quelle per le quali è stata attivata la richiesta di garanzia da parte della Sace per una linea di credito fino a 6,3 miliardi di euro che sarà erogata da Intesa Sanpaolo) ha continuato e continuerà anche dopo il matrimonio con Psa a pagare le tasse in Italia a partire da Ires e Irap. Lo Stato italiano ha invece “perso” il flusso di imposte sui redditi distribuiti a investitori non residenti in Italia (come Exor, che fiscalmente è residente in Olanda) e le imposte relative ai futuri apprezzamenti di asset non fiscalmente riferibili all’Italia.

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Tutto a posto? Più o meno, perché Fca, che a inizio anno ha chiuso una pendenza col fisco italiano accettando di pagare (con compensazioni di debiti e crediti fiscali pregressi) 730 milioni per un accertamento da 2,6 miliardi di euro aggiuntivi rispetto a quelli dichiarati nel 2014 (in sostanza il fisco italiano accusava il gruppo di avere sottovalutato Chrysler), non chiude i bilanci in utile in Italia da anni: ha perso 1,1 miliardi nel 2016, 673 milioni nel 2017 e 1,25 miliardi nel 2018, mentre nel 2019 l’intera area Emea ha chiuso con una perdita operativa di 6 milioni a fronte di un utile operativo di 6,69 miliardi in Nord America. E chi non produce utili difficilmente può pagare molte tasse sulle attività produttive (se non per l’Irap).

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Sui dividendi in Italia si paga un’aliquota fissa del 26% dal 2018. Avendo spostato la sede fiscale della holding in Gran Bretagna gli eredi Agnelli e i loro soci residenti all’estero hanno risparmiato di pagare tale aliquota sugli utili derivanti dall’attività della holding stessa. Di che cifre stiamo parlando? Di una dozzina/quindicina di milioni netti l’anno secondo le cifre che circolano tra i più importanti studi fiscalisti milanesi. Tutto compreso, dal 2014 a oggi, dovrebbe trattarsi di una sessantina di milioni di mancati incassi erariali per il fisco italiano, pari a meno dell’1% (cumulato, lo 0,2% circa su base annua) della cifra che Intesa Sanpaolo ha concordato di erogare al gruppo.

Certamente uno “sconto” fa sempre piacere, ma l’ipotesi di richiedere perentoriamente che Fca riporti la sede fiscale in Italia pena la non concessione della garanzia non sembra la soluzione più brillante della vicenda, se in cambio dovesse mettere a rischio il futuro delle attività della filiera italiana proprio ora che stanno per essere integrate con quelle francesi di Psa. Rischio che non può essere sottovalutato nel momento in cui in tutto il mondo la liquidità è garantita unicamente dall’intervento degli stati e delle banche centrali. 

Concedere la garanzia potrebbe forse offrire al governo italiano, ipotizzano alcuni tra cui Mario Seminerio, la possibilità di sedersi al tavolo delle trattative per l’aggregazione Psa-Fca e così cercare di difendere gli stabilimenti italiani di Fiat dalla futura “razionalizzazione” (comunque inevitabile, anche per il graduale passaggio alle motorizzazioni elettriche, che richiedono molto meno componenti di quelle attuali a combustione interna) che per quanto finora sempre smentita continua a essere l’incubo che non fa dormire sonni tranquilli alla classe politica italiana. Se sarà veramente così o meno lo scopriremo a breve.

 

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