Lo sguardo libero
L’accordo (a perdere) con Trump (parola non garantita): la globalizzazione è finita e l’Europa paga il conto

Ursula von der Leyen e Donald Trump
L’Unione europea si è accordata con Donald Trump: più che un’intesa commerciale è un patteggiamento politico. Un dazio medio del 15% sulle merci europee — tre volte il livello preesistente — accettato in cambio della promessa di acquisti miliardari di gas liquido e armi statunitensi. Bruxelles rivendica di aver evitato una guerra economica, ma il sapore è quello della resa. La narrativa ufficiale è quella della “stabilità nei rapporti transatlantici”, ma, sotto la superficie, l’Europa si è inginocchiata: ha rinunciato a difendere un principio (il libero scambio) e ha accettato condizioni imposte unilateralmente da un partner sempre più aggressivo. Il tutto per non affrontare l’alternativa: il rischio di una crisi sistemica e di uno scontro diretto.
Concessioni che indeboliscono
Le concessioni fatte da Ursula von der Leyen, nel tentativo di fermare l’emorragia, parlano da sole: zero dazi per alcune merci Usa, acquisti forzati di LNG (gas naturale liquefatto) e armamenti, investimenti diretti promessi per centinaia di miliardi. L’Europa esce dall’accordo più dipendente, non più autonoma. E l’Italia? Subisce. L’agroalimentare, per esempio, è tra i settori più esposti. Per limitare i danni, le aziende nazionali dovranno cercare patti privati con gli importatori americani, così da non trasferire tutto il dazio sul prezzo finale.
Il fronte finanziario: rischio dollaro debole
A rendere il quadro più cupo, c’è lo scenario finanziario. Trump continua ad attaccare la Federal Reserve e punta a controllarla. Vuole tassi bassi, una moneta debole, una banca centrale servile. Vorrebbe sostituire Jerome Powell, presidente della Fed. Se riuscisse a imporsi, il dollaro potrebbe svalutarsi drasticamente. Le conseguenze sarebbero doppie: da un lato, i prodotti europei diventerebbero più cari per i consumatori americani, con un effetto depressivo sull’export Ue. Dall’altro, i titoli del Tesoro Usa detenuti in Europa perderebbero valore, colpendo direttamente le banche centrali, i fondi e i risparmiatori europei. La sola area euro detiene almeno 2.000 miliardi di dollari in debito statunitense. Se il dollaro scende, questi asset si svalutano.
L’accordo è instabile. E Trump lo sa
Il punto, però, è ancora più profondo. Trump ha vinto. Ha imposto i suoi termini. E non è nemmeno detto che li rispetti. I suoi maestri di negoziazione insegnano che la parola data ha valore solo se conviene. Nulla garantisce che l’accordo regga, e già solo questa incertezza è una sconfitta per l’Europa. È ancor più chiaro se si osserva la reazione di altri attori globali. Cina e Canada, all'inizio dell'offensiva trumpiana, hanno risposto con fermezza, senza attendismi né illusorie aperture. L’Unione europea invece ha esitato. L’errore è stato commesso mesi fa: non reagire subito. Il risultato è che oggi ci si ritrova a rincorrere Trump da una posizione sempre più svantaggiata.
Il mondo che non ci aspettavamo
È incredibile che, dopo il Novecento e con la fine delle ideologie, il mondo sia a questo punto, ostaggio dell’imprevedibilità e del bullismo strategico di un leader come Trump. Chi poteva immaginare, 20 anni fa, che la globalizzazione si sarebbe trasformata in un campo minato di ricatti, dazi e prove di forza politiche? Abbiamo dedicato capitoli dei libri di storia e geografia per spiegare l’apertura dei mercati: adesso dovremo spiegare il neocolonialismo commerciale e finanziario. Nata per unire i popoli, l’Unione sembra ora un conglomerato esitante, più preoccupato di evitare i colpi che di proporre una visione. La logica mercantilista ha sostituito quella dei diritti e la difesa dell’autonomia si ferma davanti alle logiche del compromesso commerciale.
Serve una nuova leadership europea
Eppure, non tutto è perduto. L’Europa ha ancora margini di manovra. Il primo: reagire subito, con una politica industriale comune e un coordinamento tra Stati che non sia solo contabile ma strategico. Il secondo: liberarsi da certe dipendenze sistemiche, sul piano energetico, tecnologico e militare. Il terzo: ridurre l’esposizione al rischio dollaro, smarcando l’autonomia finanziaria. E soprattutto: liberarsi dai ricatti interni, a partire da quelli dell’Ungheria di Viktor Orbán e della Slovacchia di Robert Fico, la quinta colonna di Vladimir Putin dentro l’Ue. L’Europa non può essere ostaggio dei veti di chi rema contro. Serve superare il principio della maggioranza assoluta, che paralizza ogni decisione strategica, e introdurre meccanismi che tutelino l’unità, non l’immobilismo.