Berlino ci guadagna ancora: ecco perché Angie ha detto ja a Mario
Di Luca Spoldi
Il bello di un incontro organizzato da private banker di alto profilo con la propria clientela e una serie selezionata di gestori è che se siete invitati a moderare il dibattito, come mi è capitato martedì scorso a Napoli, ospite di Banca Generali, è che potete carpire più informazioni chiacchierando “dietro le quinte” di quante, a volte, non ne riusciate a trarre da report e analisi “ufficiali”.
Alla vigilia della riunione della Bce che si sarebbe poi conclusa con l’annuncio di un “pacchetto pro crescita” che ha sorpreso tanti, gli esperti di alcune società di gestione europee presenti all’evento organizzato dal district manager Rosario Di Somma concordavano che l’accesso al credito e il fattore cambio resta il distinguo per capire la diversa situazione in cui versano la Germania da un lato e quasi tutti gli altri paesi dell’area dell’euro dall’altro.
Se il problema dell’euro è, sin dall’origine, aver accettato tassi di cambio rispetto alle “vecchie” valute nazionali che hanno finito con l’avvantaggiare quasi esclusivamente Berlino e soprattutto aver dato origine ad un’unione unicamente monetarie e non anche bancaria e fiscale, perché la Germania, che già soltanto dopo lunghe trattative si è convinta ad accettare l’unione bancaria e ad attribuire alla Bce un potere di controllo sulle sue maggiori banche, ha accolto senza fiatare (e soprattutto ha votato a favore, visto che Draghi ha parlato di consenso “unanime” all’interno del board della Bce) l’ulteriore taglio dei tassi ufficiali sull’euro e il preannunciato lancio di una nuova serie di aste di liquidità a lungo termine “condizionate” all’erogazione del credito da parte delle banche commerciali che vorranno accedere a tale liquidità?
Per due motivi, sui quali concordavano i miei interlocutori poche ore prima che Draghi estraesse il “bazooka” dal cilindro: anzitutto la Germania non è poi così diversa dall’Italia, anzi. L’Italia, osservava Jurgen Mahler, Responsabile Italia presso Oddo Asset Management, ha saputo realizzare in questi ultimi due anni un importante recupero in termini di competitività, anche superiore a quanto ha fatto Berlino nello stesso arco di tempo, riducendo dunque uno “spread” molto più importante di quello a cui alludono da mesi i media italiani e tedeschi (lo spread di rendimento tra Btp e Bund, che per Mahler non ha più ragione d’essere più alto di quelli esistenti tra titoli francesi o anche solo spagnoli e titoli tedeschi).
Poi, ragionava sempre l’esperto di Oddo Asset Management, la Germania ha accettato l’unione bancaria solo perché i controlli “esterni” si limiteranno alle grandi banche come Deutsche Bank (che infatti ha dovuto lanciare in questi giorni un aumento di capitale da 8,5 miliardi di euro per essere sicura di passare l’Asset quality review e gli stress test della Bce), Commerzbank o Dresdner Bank, ma non arriveranno a indagare a fondo nel mondo delle Landesbanken e delle Sparkassen (le casse regionali), in tutto 417 istituti di credito popolare/rurale nei cui consigli di amministrazione siedono esponenti politici e sindacali ai quali fanno capo asset per oltre mille miliardi di euro e per le quali transitano circa i due terzi dei crediti erogati in Germania.
Se in Italia dal 1990, con la legge Amato-Carli, sono stati definiti e separati i ruoli di Fondazioni bancarie e istituti di credito, in Germania questo non è mai accaduto e ancora oggi tutto questo mondo è mosso più da logiche politiche che da criteri di rigorosa efficienza economica. Ciò nonostante a beneficiare delle misure preannunciate dalla Bce potrebbero proprio essere istituti come quelli tedeschi (e francesi e spagnoli), che possono vantare una domanda di credito più “in salute” di quella italiana dato che le sofferenze, che in Italia continuano a crescere a livello di aggregato lordo, tendono a decrescere al crescere del Pil (la Bundesbank ha appena annunciato di prevedere che il Pil tedesco salga dell’1,9% quest’anno, del 2% l’anno prossimo e dell’1,8% nel 2016, mentre Ignazio Visco il 30 maggio scorso ha parlato per l’Italia di una ripresa “fragile e incerta” , mentre le previsioni di gennaio di Via Nazionale precisavano: Pil a +0,7% quest’anno, +1% nel 2015).
Non solo: anche se gestori e analisti non lo dicono apertamente, la caccia ai rendimenti sta spingendo molti investitori ad allargare l’orizzonte dei loro portafogli o a scadenze più lunghe o a emittenti “high yield” e questo finora ha favorito i titoli di stato italiani. Ma aver annunciato nuovi finanziamenti “targeted” ossia “condizionati” (all’erogazione di crediti), dopo che le banche italiane hanno da tempo iniziato a ridurre i propri attivi per aggiustare i coefficienti patrimoniali non riuscendo far crescere abbastanza rapidamente gli utili in un periodo di recessione, e aver precisato che non si vogliono in alcun modo favorire “titoli di stato ed intermediari finanziari” ma far arrivare un impulso monetario “all’economia reale” rischia, nuovamente, di portare minori benefici alle banche italiane che non a quelle tedesche o di altri paesi europei. A meno che la progressiva rivitalizzazione del mercato delle Abs (e il parallelo processo di dismissione di crediti “da ristrutturare” da parte delle banche italiane) non porti intermediari specializzati come i grandi fondi hedge o di private equity o fondi sovrani a investire anche da noi offrendo crediti alle Pmi.
Il meccanismo sarebbe semplice: meno credito le banche fanno ad imprese (sane), più spazio si crea per tali intermediari per proporsi come finanziatori, sottoscrivendo emissioni obbligazionarie ad alto rendimento che possono poi venir inserite in portafogli più ampi e ricollocate sul mercato a tassi più bassi sfruttando il miglior rating dell’intermediario. In soldoni: le aziende troveranno qualcuno disposto a fare loro credito e magari anche a un tasso meno elevato di quello a cui sono ora disposto a concederlo le banche italiane, gli intermediari, quasi sempre esteri, si rifinanzieranno sul mercato emettendo bond a rendimento non così elevato ma comunque appetibili rispetto ai titoli di stato in genere (i cui tassi resteranno bassi a lungo grazie all’azione della Bce e delle altre banche centrali).
Le banche italiane a loro volta potranno spendere di meno per finanziare nuovi impieghi alle imprese nel momento in cui la ripresa dovesse materializzarsi (e quindi offriranno tassi meno elevati anche sulle proprie obbligazioni). Ma a guadagnare di più e prima saranno quegli istituti e quegli intermediari che già oggi si sono lasciati alle spalle le scorie del “credit crunch”, ossia le banche tedesche, francesi e spagnole. Ecco perché anche Angela Merkel non ha battuto ciglio quando Mario Drahi ha annunciato: più credito per (quasi) tutti.