Il lavoro che c'è
di Nicolò Boggian
In questi giorni si sente spesso dibattere del lavoro che c’è o che non c’è. Nel programma Quinta Colonna, Rosario Trefiletti di Federconsumatori dichiarava senza tema di smentita che il problema dei giovani, che non trovano lavoro è che “il Lavoro non c’è”, alludendo a come solo una politica industriale/monetaria può far ripartire il Paese e dare lavoro a Giovani e meno Giovani.
Non sono molto d’accordo con questa affermazione per una serie di motivazioni. Innanzitutto perché lo Stato dirigista mi sembra un po’ fuori moda e poco abile come imprenditore, secondariamente perché nelle condizioni d’ingiustizia e d’inefficienza in cui versa il nostro mondo del lavoro, mettere altra benzina nel motore significherebbe semplicemente alimentare le usuali distorsioni e sprechi. Per ultimo mi sembra un modo troppo facile liquidare la questione senza distribuire le giuste responsabilità della situazione in cui siamo giunti, anche a causa della classe Dirigente del Paese di cui Trefiletti in un certo modo fa parte.
Ci sono invece due modi di intendere il lavoro: una visione Statico/Assistenzialista e una Dinamico/Creativa. La prima intende il Lavoro come qualcosa che esiste, può essere diviso e dipende dalle risorse finanziarie che possono remunerarlo, la seconda invece considera il Lavoro come qualcosa che si crea in funzione dei problemi che risolve e dei bisogni che soddisfa.
Purtroppo in Italia prevale la prima visione che è alimentata quotidianamente dalla cultura Assistenzialista/Statalista del Paese e che sta mettendo in grande difficoltà tante persone, soprattutto Giovani.
Anche però ammettendo questa visione del Lavoro, non è per niente corretto dire che manca il lavoro, ma è più giusto dire che il lavoro che esiste è appannaggio sempre degli stessi -uomini dai quaranta ai 65 anni, con contratti ipergarantiti e stipendi e diritti quasi sempre troppo alti per quanto producono- a scapito di quanti non lo vedono neanche con il binocolo, quasi sempre giovani e donne.
Questo ha un effetto drammatico in termini di equità sociale, di efficienza e di prospettive future. Per ogni dirigente sovra retribuito ci sarebbero invece tre o quattro posti di lavoro per dei Giovani o Donne e, allo stesso modo, sostituire ogni ora di lavoro inefficiente significa dare una maggiore produttività agli investimenti e alle politiche industriali.
Questo senza considerare che chi ha energie e talento e può prendere in mano ora il Paese, avrà una difficoltà oggettiva a farlo tra vent’anni quando non avrà maturato esperienze e sarà “arrugginito” nella Disoccupazione.
Seguendo quest’argomentazione, per far ripartire il Paese è necessario dividere le occasioni di lavoro fra tutti quelli che ne hanno diritto- anche giovani e donne- toccando i diritti acquisiti di quanti guadagnano troppo per quanto producono, per “assegnarlo” a quanti hanno talento ed energie e sono tenuti costantemente “fuori dalla porta” con accordi sindacali a protezione del lavoro, blocco del turnover nella PA e con l’articolo 18 e le sentenze dei giudici del lavoro.
Male, infatti, quanto diceva la nuova Presidente della Camera, Laura Boldrini, su come non si possono toccare i diritti acquisiti dei dipendenti della Camera. Parliamo, infatti, di persone, che fanno un lavoro che si basa su un codice di comunicazione antiquato e inefficiente, di cui sono depositari, ma che in fondo non serve al Paese, ma solo alla propria auto sopravvivenza.
La seconda visione del lavoro, che in Italia è semisconosciuta, perché non è mai discussa nei dibattiti televisivi e, ancora più gravemente, nelle scuole è quella dinamica.
Sarebbe ora che spieghiamo che il lavoro non è sempre un qualcosa che piove dal cielo in modo inconsapevole, ma è una condizione che deriva dalla ricerca, dall’analisi di quello che è necessario e utile, dalla domanda di chi ne ha bisogno e dalla passione e creatività di chi lo “inventa”.
Il lavoro non si cerca s’inventa e si crea. Certo, la situazione in cui siamo sfavorisce la “creazione” di Lavoro rispetto ai più favorevoli anni del dopoguerra, ma ci sono anche ragioni di straordinario ottimismo che derivano dalla tecnologia - Internet, telecomunicazioni, trasporti - e dalle nuove tendenze sociali - conoscenza delle lingue, confronto tra razze e popoli diversi -.
Ebbene, considerando questa seconda visione, quello che dobbiamo fare è definire un ambiente migliore per la creazione di lavoro partendo da una Scuola che introduca alla creatività e non trasmetta solo la conoscenza in modo unidirezionale, per poi abbassare i costi della Burocrazia –fra cui le leggi e i codici di comunicazione antiquati come le procedure della Pubblica Amministrazione e della Camera- e la tassazione sul lavoro che viene creato in modo innovativo.
Infine dobbiamo “liberare” quanti sono intrappolati culturalmente nella prima “visione” statica del lavoro e disincentivati da assegni di disoccupazione, mobilità e assistenzialismo per consentirgli di diventare essi stessi volano della crescita economica e della propria libertà.
Mi piacerebbe quindi sentire parlare più spesso di questa prospettiva e un po’ meno di quella della protezione dei Diritti. Probabilmente ciò non succederà fino a quando non cambieranno gli ospiti nei dibattiti pubblici e il genere e l’età media della classe dirigente del Paese, con buona pace di quanti affollano scuole, sindacati e studi televisivi.