Manovra, Camisa (Confapi): "Ignorate le PMI, senza industria non c’è ricchezza. Dazi e Green Deal? Serve un vero Piano Marshall europeo" - Affaritaliani.it

Economia

Ultimo aggiornamento: 20:04

Manovra, Camisa (Confapi): "Ignorate le PMI, senza industria non c’è ricchezza. Dazi e Green Deal? Serve un vero Piano Marshall europeo"

Dalla manovra 2026 pochi interventi per le PMI: servono una politica industriale stabile, una strategia europea e più investimenti in formazione. L'appello di ristian Camisa, presidente nazionale di Confapi

di Rosa Nasti

Camisa (Confapi): "Senza un piano Marshall europeo e una visione industriale stabile, l’Italia resterà ai margini"

Ritorno del super ammortamento, tassa sui dividendi più pesante, nessuna strategia contro la fuga dei cervelli e ancora zero visione di lungo periodo per le imprese. Nella manovra 2026 il pacchetto di misure per lo sviluppo non convince, e soprattutto non guarda alle PMI. “Serve una politica industriale di medio-lungo periodo”, afferma senza giri di parole Cristian Camisa, presidente nazionale di Confapi, intervistato da Affaritaliani.

Mentre la produzione industriale continua a calare, Confapi rilancia la proposta di un vero "Piano Marshall europeo" per innovazione e digitalizzazione. Bene la tenuta dei conti pubblici, ma restano forti le preoccupazioni per i dazi USA e per il CBAM europeo, che rischiano di colpire ancora più duramente il cuore produttivo del Paese: le piccole e medie imprese.

Presidente, il Governo ha annunciato il ritorno del superammortamento, con 4 miliardi destinati agli investimenti e alla transizione digitale ed ecologica. È la misura giusta per sostenere la competitività delle PMI o serviva un intervento più strutturale?

Il super e iperammortamento, come confermano tutti gli studi, è uno strumento più adatto alla grande industria, semplicemente perché si può utilizzare solo quando si fanno utili. Credo quindi che sia un modo per venire incontro alle esigenze delle grandi imprese, non certo delle piccole e medie. Noi abbiamo sempre ritenuto che lo strumento migliore sia il credito d’imposta: lo abbiamo utilizzato con successo con Industria 4.0 e poi con Transizione 5.0, nonostante le difficoltà legate ai vincoli europei. È uno strumento facile, intuitivo e soprattutto orientato alla crescita.

La vera sfida dei prossimi anni sarà la digitalizzazione e la sostenibilità ambientale, per restare competitivi sui mercati. Per questo servono misure stabili e indipendenti dai risultati economici, mentre il superammortamento vale solo per il 2026 e non garantisce continuità. In sintesi, non è una misura adatta al nostro mondo, quello delle PMI.

La nuova tassa sui dividendi, che passerà dall’1,2% al 24% per le partecipazioni di minoranza, ha creato molte polemiche. Dal punto di vista delle PMI, che impatto ha?

È una misura controproducente, perché invece di generare entrate stabili finisce per erodere la base imponibile nazionale. Introduce una doppia tassazione e spinge il carico fiscale complessivo oltre il 57% — per la precisione al 57,23%. Ed è questo che ci preoccupa: scoraggia in modo drastico gli investimenti in capitale di rischio, soprattutto per le PMI.

Nelle piccole e medie imprese, infatti, le partecipazioni incrociate di minoranza hanno spesso una funzione strategica: servono a costruire filiere, innovare e competere sui mercati internazionali. Portare la tassazione dall’1,2% al 24% significa di fatto minare l’attrattività dell’Italia anche agli occhi dei fondi esteri. Per questo auspichiamo un ripensamento immediato: la presenza di partecipazioni, anche di minoranza, è essenziale per rafforzare il nostro sistema produttivo.

Nella Manovra non sembrano esserci misure per trattenere o far rientrare i talenti. Quanto pesa oggi la carenza di competenze sul sistema delle piccole e medie imprese?

Serve un vero patto tra governo e parti sociali: oggi le imprese faticano a trovare competenze, mentre l’8% dei nostri laureati ogni anno lascia l’Italia. Le ragioni sono due: all’estero ai giovani vengono offerte responsabilità maggiori e stipendi più alti, in media del 50%. Avevamo proposto di destinare 100 milioni per trasformare lo stipendio lordo in netto a una parte dei "cervelli in fuga", trattenendo le figure strategiche che il Paese non può perdere.

Lo Stato investe dai 100 ai 150 mila euro per formare ogni laureato: non possiamo permetterci di regalarli ad altri Paesi. Apprezziamo la tenuta dei conti pubblici, ma servono misure strutturali per rafforzare davvero la piccola e media impresa, la spina dorsale della nostra economia. I prossimi anni saranno decisivi: senza un piano di digitalizzazione e produttività rischiamo di restare fuori mercato.

I dati sulla produzione industriale mostrano un calo continuo, con agosto in flessione di quasi 3 punti: la crisi più lunga degli ultimi decenni. Quali sono le cause strutturali di questa debolezza?

Da imprenditori sappiamo che bisogna lavorare con ciò che si ha, ma il calo della produzione industriale, -2,7% ad agosto, 26 mesi negativi su 27, è un segnale d’allarme che non si può ignorare. L’industria deve tornare al centro della politica economica. Serve un vero "piano Marshall" per la digitalizzazione, con investimenti in macchinari innovativi e tecnologie capaci di ridurre il gap tra le PMI e le grandi imprese. Solo così potremo recuperare competitività sui mercati esteri.

C’è poi il nodo dell’energia: oggi in Italia paghiamo il 50-70% in più rispetto a Francia e Germania. È il momento che l’Europa diventi un’unione anche economica, con un mercato energetico integrato e costi uniformi. Altrimenti continueremo a partire con un handicap competitivo che neppure la flessibilità del nostro tessuto industriale può compensare.

Molti imprenditori denunciano che alcune regole europee, dal Green Deal agli standard ESG, si stanno trasformando in veri e propri “dazi interni”. È davvero così?

L’Europa contribuisce a meno del 10% delle emissioni globali di gas serra, eppure si autoimpone vincoli che altri non hanno. Tutti comprendiamo la necessità di una transizione sostenibile, ma non può esserci sostenibilità ambientale senza sostenibilità economica. In un momento di crescita quasi zero e con crisi internazionali aperte, sarebbe opportuno sospendere temporaneamente il Green Deal e le regole ESG. Non eliminarle, ma rinviare l’applicazione, per permettere alle imprese, soprattutto quelle meno capitalizzate, di respirare. Oggi questi standard comportano costi aggiuntivi che pesano solo su aziende europee, rendendo impossibile competere con chi opera fuori dall’UE. È il momento di liberare risorse da reinvestire nelle priorità vere: innovazione, produttività e, in molti casi, pura sopravvivenza delle imprese.

I dazi americani e l’apprezzamento dell’euro stanno mettendo in difficoltà migliaia di PMI esportatrici, colpendo settori chiave come agroalimentare, meccanico e farmaceutico. Quali effetti concreti state registrando tra le vostre aziende associate?

È un’altra doccia fredda. Il mercato americano rappresenta circa il 10% delle nostre esportazioni, quindi l’impatto è pesante. I dazi stanno colpendo duramente la meccanica, con tariffe fino al 50% su acciaio e alluminio, ma anche l’agroalimentare, dalla pasta al vino, e il farmaceutico. Stimiamo un effetto negativo su circa 34.000 imprese, per un danno potenziale di 20 miliardi l’anno se i dazi resteranno a questi livelli.

Avevamo proposto un credito d’imposta temporaneo per compensare questi costi e dare alle imprese il tempo di diversificare i mercati, ma servono anni per una PMI per spostarsi su nuove aree commerciali. Inoltre, uno dei costi più pesanti negli Stati Uniti è quello logistico: per questo avevamo suggerito la creazione di un hub distributivo italiano per le PMI, che permetterebbe di ridurre le spese di trasporto e rendere le nostre aziende più competitive nel medio periodo.

Il meccanismo CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism), pensato per proteggere l’industria europea dalla concorrenza extra-UE, rischia però di penalizzare i trasformatori e le PMI. In che modo, e quali correttivi proponete?

Il CBAM nasce con buone intenzioni, ma così com’è strutturato rischia di penalizzare proprio le PMI. Il problema è duplice: il dazio si applica solo alle materie prime importate, non ai prodotti trasformati. Il risultato è che vengono tutelate le grandi industrie di base, acciaierie, siderurgie, mentre chi trasforma, cioè la filiera delle piccole e medie imprese, resta scoperto. Molte grandi aziende stanno già delocalizzando la trasformazione fuori dall’Unione per aggirare il meccanismo, sottraendo così lavoro alle filiere italiane.

Inoltre, non c’è ancora chiarezza sui costi reali che le imprese dovranno sostenere: il rischio è di trovarsi a gennaio con importi retroattivi o non correttamente calcolati, creando ulteriore incertezza. Confapi chiede più trasparenza e correttivi concreti: non si può continuare a scrivere regole che favoriscono poche grandi imprese dimenticando che l’ossatura dell’industria europea è fatta di PMI. 

Se potesse sintetizzare in un messaggio al Governo e alle istituzioni europee le priorità delle PMI italiane in questo momento, quale sarebbe?

Serve una politica industriale vera, con una visione di lungo periodo. Noi imprenditori siamo abituati a ragionare su progetti pluriennali, ma la politica continua a muoversi per misure temporanee, che cambiano ogni anno. Abbiamo bisogno di stabilità e continuità per poter investire con fiducia, sapendo che le regole non verranno stravolte dopo pochi mesi.

E poi serve un salto di scala: non bastano interventi nazionali, serve un piano industriale europeo forte. Gli Stati Uniti e la Cina pianificano in modo rapido e coordinato, mentre l’Europa impiega anni per decidere. Se non costruiamo una strategia industriale comune, resteremo indietro.

Senza industria non c’è ricchezza, senza ricchezza non c’è leva per finanziare pensioni, servizi o welfare. E infine, va messa al centro la formazione dei giovani, dei lavoratori e anche degli imprenditori perché il mondo cambia a una velocità tale che non possiamo più permetterci di restare fermi.

Noi non facciamo polemica: vogliamo essere propositivi. Quando dissentiamo, è perché crediamo profondamente nelle nostre posizioni. Rappresentiamo un mondo omogeneo, e quando parliamo, lo facciamo per il 99%, se non il 100%, delle nostre aziende associate. Ed è un segnale che le istituzioni dovrebbero ascoltare.

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