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Economia
McKinsey gestirà il Recovery Plan: la resa di una politica senza competenze
Mario Draghi e Mario Monti (LaPresse)

Mario Draghi affida la gestione del Recovery Plan alla multinazionale americana del consulting McKinsey

Al cospetto del Parlamento, al quale si era presentato per chiedere la fiducia, Mario Draghi aveva negato che la nascita del suo Governo fosse la prova del fallimento della politica. Una presa di posizione tanto saggia quanto opportuna: al di là del fatto che un Presidente del Consiglio con il suo curriculum non può essere considerato meno “politico” dei suoi predecessori, sarebbe stato decisamente poco avveduto dichiarare pubblicamente il fallimento di chi ha costituzionalmente il potere di far nascere un esecutivo e poi di mantenerlo in funzione. 

La questione è tuttavia più profonda e riguarda il sempre più diffuso pregiudizio sul fatto che i manager e gli economisti siano sempre e comunque meglio di una politica in gravissimo deficit di credibilità. C'è il precedente illustre di Mario Monti, ma anche l'esempio di Beppe Sala, che pure ha dimostrato nel suo primo quinquennio da Sindaco di Milano di possedere una notevole capacità di lettura e gestione politica: è chiaro a tutti che sono stati i suoi successi manageriali a proiettarlo verso Palazzo Marino. 

La decisione del Governo Draghi di rivolgersi a McKinsey per gestire il Recovery Plan si inserisce pienamente in questo filone culturale: non possono sussistere dubbi sulle competenze della multinazionale americana della consulenza, ma ce ne sono certamente diversi sia sulle modalità di questa scelta, sia sul messaggio che ciò manda ai cittadini e ai loro rappresentanti. 

Da McKinsey vengono Vittorio Colao, ministro per l’innovazione tecnologica del Governo Draghi, ma anche Yoram Gutgeld (che fu consulente di Matteo Renzi), nonché Paolo Scaroni, Corrado Passera e Alessandro Profumo. Discutere la capacità di figure di questo profilo di compiere scelte strategiche non avrebbe molto senso e lo stesso vale, ovviamente, per Mario Draghi stesso. 

Il problema su cui invece varrebbe la pena di discutere è che uno Stato non è un'azienda: la logica del profitto, che giustamente guida i manager, non può sostituire lo sguardo più ampio che bisogna avere quando si guida una Nazione. Per sospingere l'Italia fuori dal dramma del Covid-19 servono scelte efficaci, ma indiscutibilmente politiche: in tante occasioni, lo vedrete, ci troveremo di fronte a snodi anche etici non facili da sciogliere, nei quali trovare il giusto mezzo che salvaguardi le ragioni della Borsa e quelle delle famiglie, ascoltando tanto il parere degli imprenditori quanto quello degli epidemiologi. 

Passo dopo passo, si dovrà fare la sintesi tra ragioni ugualmente giuste, ma confliggenti. Questo, vale la pena ricordarlo, è il compito naturale della politica, che oggi ci serve come non mai. Ricorrere ai manager è una scorciatoia pericolosa, soprattutto se, come in questo caso specifico, lo si fa senza averne prima discusso in alcuna sede nota all'opinione pubblica. 

Però abbiamo il dovere di dire le cose come stanno: se siamo giunti a questo, è sicuramente per responsabilità della politica, che troppo spesso ha castrato le competenze in favore di una ben più prosaica logica di spartizione e compensazione. 

Pensateci: siamo reduci da una tornata di scelte (dai ministri a una lunghissima lista di viceministri e sottosegretari), che è stata chiaramente ispirata più dalle discutibili alchimie degli equilibri politici che da effettive capacità degli interessati, a parte alcune lodevoli eccezioni. 

Ma se è la politica stessa a presentarsi in modo così palese come unfit per gestire la complessità, la logica conseguenza è che qualcun'altro ne occuperà lo spazio, in ragione di un essere “migliore” che spesso è anche vero, ma che ha ben poco a che fare con la democrazia.
 

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