Mps conquista Mediobanca, ma che cosa avrebbe detto Enrico Cuccia? Il ritratto del "banchiere dei banchieri" - Affaritaliani.it

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Ultimo aggiornamento: 13:16

Mps conquista Mediobanca, ma che cosa avrebbe detto Enrico Cuccia? Il ritratto del "banchiere dei banchieri"

Dalla fondazione di Mediobanca, alle grandi partite industriali agli scontri con Sindona e Prodi, fino al tramonto negli anni ’90: il ritratto di Enrico Cuccia, banchiere silenzioso che ha plasmato mezzo secolo di capitalismo italiano

di Elisa Mancini

Mediobanca, ENI, Fiat e il "salotto buono": chi era Enrico Cuccia, il banchiere più potente del Novecento

Chissà cosa direbbe oggi Enrico Cuccia, se potesse vedere la sua Mediobanca finire sotto il controllo del Monte dei Paschi, in un’operazione da 13,5 miliardi orchestrata tra il governo e i soliti grandi azionisti di casa nostra, Del Vecchio e Caltagirone in testa. Probabilmente scuoterebbe il capo in silenzio, con quello sguardo che aveva il potere di gelare anche l’imprenditore più spavaldo. Perché Mps non è Mediobanca: è più piccola, forse più fragile, e soprattutto è "altra cosa".

L’operazione non nasce solo da logiche industriali ma da un disegno di potere: conquistare Mediobanca per mettere le mani sul vero bottino, il Leone di Trieste. Cuccia, che dell’indipendenza fece una religione, avrebbe probabilmente considerato la manovra una forzatura, un cortocircuito tra Stato, banche e famiglie potenti. D'altronde parlare di Cuccia significa parlare di Mediobanca e, insieme, dell’anima segreta del capitalismo italiano.

Nato a Roma nel 1907, origini siciliane, laurea in giurisprudenza, Enrico Cuccia entra presto nei salotti della finanza pubblica italiana. Giornalista d’arte al Messaggero sotto pseudonimo, funzionario della Banca d’Italia a Londra, poi all’IRI. Durante la guerra sostiene la Resistenza dalla Svizzera, ma il suo capolavoro arriva nel dopoguerra: nel 1946 fonda Mediobanca, insieme a Mattioli e Ortona, con l’obiettivo di finanziare la ricostruzione industriale del Paese. Da lì non se ne stacca più, diventandone anima, cervello e ombra.

Minuto, gobbo, schivo fino alla diffidenza, Cuccia è stato il più potente banchiere italiano senza mai apparire tale. A tratti quasi anomalo: non amava la luce dei riflettori, non parlava quasi mai in pubblico. La sua influenza stava nelle relazioni, nelle trame, nella capacità di muovere capitali e uomini senza che nessuno lo vedesse. "Le azioni non si contano, si pesano", diceva. Una filosofia che racchiude tutta la sua visione. Negli anni Sessanta e Settanta Mediobanca diventa il "salotto buono" della finanza italiana. Fiat, Pirelli, Olivetti, Montedison: tutti passavano sotto il suo sguardo vigile.

Alcune mosse restano scolpite. La fusione Montecatini-Edison (1966), l’ingresso dei libici nella Fiat (1976), un’operazione che tenne banco per un decennio. Gli accordi Pirelli-Dunlop. E sicuramente memorabile, una delle transazioni più rilevanti gestite da Cuccia e Mediobanca, fu la scalata dell' ENI alla Montedison di Giorgio Valeri nel 1968, che consacrò Mediobanca come arbitro dell’industria nazionale. Ma anche gli scossoni: il terremoto Ferruzzi nel 1988, la battaglia sulla Comit nel 1999 che sancì la fine della sua influenza diretta.

Ma i salotti, si sa, hanno anche i loro intrusi. Michele Sindona, il "banchiere spregiudicato" di Patti, fu l’ospite più scomodo. Cuccia, all’inizio, non lo ostacolò: lo lasciò muovere, forse per capire fin dove si sarebbe spinto. Poi, quando Sindona provò a scardinare il sistema e puntò dritto su Bastogi, una delle società chiave attraverso cui Mediobanca teneva le redini della Montedison, gli sbatté la porta in faccia. 

Da lì nacque una guerra feroce, fatta di accuse, minacce, attentati. Cuccia sarà testimone chiave nel processo sull’omicidio di Giorgio Ambrosoli, l’avvocato che Sindona fece uccidere. Raccontò di aver saputo a New York delle intenzioni criminali del faccendiere, senza però avvertire le autorità, per "sfiducia nello Stato", disse. Una frase che lo rese ancora più enigmatico.

E con la politica i legami furono inevitabili: negli anni Ottanta si scontrò più volte con Romano Prodi sull’assetto dell’IRI e sulle privatizzazioni. Anche con Cesare Merzagora, presidente di Generali, i contrasti furono altrettanto duri. Persino l’influenza su colossi come Fiat, Pirelli e Olivetti, un tempo cuore pulsante del salotto buono cominciava ad affievolirsi.

Cuccia rimaneva comunque il punto di riferimento della finanza italiana, ma le sue mosse erano più caute, meno offensive. Con Raffaele Mattioli i rapporti furono sempre ambivalenti: stima profonda, certo, ma anche diffidenza, distanza, attriti inevitabili tra due personalità forti. L’ultima grande sfida arrivò nel 1999, con la battaglia per il controllo della Comit. Cuccia si giocò tutto, ma fu sconfitto da Giovanni Bazoli, alla guida di Intesa Sanpaolo. Una resa amara, che segnava la fine di un’epoca. Nel frattempo aveva già designato Cesare Romiti come suo successore a Mediobanca. 

Quando morì, il 23 giugno 2000, a 92 anni, i giornali lo salutarono come "il banchiere dei banchieri”, “il burattinaio silenzioso", "il sacerdote del grande capitale". Ma il re dei salotti lasciava dietro di sé un paradosso: nessun impero personale, nessun tesoro nascosto. Solo un conto corrente alla Comit con poco più di 150 mila euro in lire. Nessun testamento. Nessun patrimonio ufficiale.

La sua vera eredità non stava nei numeri ma nel metodo: la convinzione che la finanza non fosse spettacolo ma regia, che le mosse decisive si facessero in silenzio, lontano dai microfoni. Per questo Mediobanca ribattezzò la sede "Piazzetta Cuccia". Il suo nome inciso non in oro, ma nella pietra.

E allora, tornando all’oggi, viene da chiedersi: davanti alla fusione MPS-Mediobanca, lui cosa avrebbe detto? Probabilmente nulla. Avrebbe osservato in silenzio, piegando appena le labbra in quel mezzo sorriso che sapeva far tremare ministri, capitani d’industria e avvocati. E forse, con il suo consueto sarcasmo muto, avrebbe fatto capire che la vera partita non è mai a carte scoperte.

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