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Economia
Tim regina per redditività, ma la Borsa non la premia. Il male oscuro

Redditività al top tra le compagnie di telefonia europee, ma il peso del debito e un mercato che presenta ancora luci e ombre continuano a non fare apprezzare Telecom Italia quanto potrebbe dal mercato, dove il titolo dell’ex monopolista telefonico italiano vale meno di 53 centesimi di euro per azione (circa un 1% in meno di quanto valeva un anno fa), con una capitalizzazione di mercato che fatica a superare la soglia degli 11,2 miliardi di euro.

Eppure che i costi siano ormai stati ridotti all’osso e l’efficienza spremuta il più possibile lo testimonia la ricerca presentata oggi dall’ufficio studi di Mediobanca dedicata appunto al settore Telco mondiale e che abbraccia i risultati del 2018 e dei primi sei mesi del 2019. Se in termini di fatturato gli Usa rappresentano il mercato più ampio (valendo 294 miliardi di euro), l’Europa (215 miliardi di fatturato complessivo) e la Cina (189 miliardi, con una crescita del 21% tra il 2015 e il 2019 stimato) seguono da vicino. 

telecom ape (2)
 

At&t con l’acquisizione, peraltro contestata da alcuni fondi azionisti, di Time Warner ha consolidato la sua leadership mondiale con 149 miliardi di giro d’affari lo scorso anno (Telecom Italia è solo sedicesima con 18,65 miliardi di fatturato), ma se si guarda ai margini industriali il gruppo italiano (17,5% del fatturato) balza al quinto posto al mondo, ovvero al terzo in Europa, superato solo dall’americana Verizon e dalla norvegese Telenor (entrambe con un Mon del 23%), dalla giapponese Kddi (20%) e dalla svizzera Swisscom (17,6%). 

A pesare su Tim è da un lato un mercato che continua a soffrire soprattutto nella telefonia fissa: con ricavi per 31,6 miliardi nel 2018 il nostro Paese si conferma il quarto mercato europeo ma il dato è inferiore del 2,6% a quello del 2014, meglio di quanto accaduto in Francia (35,6 miliardi, -3,5%) ma peggio di Germania (57,44 miliardi, +1,2%) e soprattutto Spagna (30,18 miliardi, +11,3%) dove  le offerte “quintuple play” (voce fissa e mobile, dati fissi e mobili, tv) sono arrivate a 5,9 milioni di contratti, con 8,3 milioni di accessi Ftth in più rispetto al 2017.

Luigi Gubitosi ape 2
 

C’è evidentemente un gap infrastrutturale da ridurre sia in Francia sia in Italia e a giudicare dagli investimenti ci si sta provando (9,8 miliardi investiti in Francia, il 27,5% dei ricavi, 8,4 miliardi in Italia, pari al 26,6% dei ricavi) ma intanto la guerra dei prezzi (scesi in Italia del 19,6% in media, contro il -16,5% in Spagna, il -12,9% in Francia, il -9,1% in Olanda e il 4,5% in Germania) sta facendo rallentare il fatturato di questo settore, calato in Italia lo scorso anno del 5,3% (e solo in parte compensato dal +1,3% della telefonia fissa, a fronte peraltro di prezzi in crescita mediamente del 5%).

Il problema è che l’Italia ha una penetrazione elevata della telefonia mobile (137%, ossia ogni italiano ha mediamente più di 1,3 contratti mobili intestati a suo nome, dietro solo a Russia col 161% e alla Svezia col 140%), il 4G sta gradualmente espandendosi (raggiunge ormai i due terzi delle sottoscrizioni complessive), ma la connessione a banda larga resta una nicchia di mercato, raggiungendo solo il 28% degli abitanti (contro il 44% dell’Olanda e il 43% della Francia), anche se  si nota un’accelerazione delle connessioni Ftth ormai al 23,9% delle abitazioni (erano appena il 12,2% nel 2013).

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Il ritardo “culturale” e infrastrutturale italiano significa anche un ritardo nella digitalizzazione dell’economia italiana, sotto tutti gli aspetti: siamo al 19esimo posto al mondo come connettività (anche se partivamo da un 26esimo posto lo scorso anno), 18esimi come servizi pubblici digitali (e qui, cosa non sorprendente, il miglioramento appare più lento, visto che eravamo 19esimi lo scorso anno), addirittura 26esimi come laureati impiegati nel settore telecomunicazioni, 25esimi come uso di internet e 23esimi come integrazione delle tecnologie digitali (quel che è peggio senza miglioramenti evidenti in questi due ultimi campi).

Così su Tim finisce col pesare ulteriormente la relativamente bassa quota di fatturato realizzato all’estero: la media che emerge dallo studio di Mediobanca è del 47,6%, ma gruppi come Vodafone (84,9%), Telenor (74,3%), Telefonica (73,9%) e Deutsche Telekom (67%) fanno molto meglio. Tim al contrario si ferma al 24,1% sostanialmente grazie solo a Tim Brasil (23% del fatturato), facendo meglio solo di Swisscom (20,8%) e BT Group (16%). 

Un “peccato” davvero, perché come detto Tim si sta rivelando uno dei gruppi più efficienti del settore a livello mondiale e avrebbe potuto fare ben altro se fosse riuscita a crescere all’estero anziché essere costretta dall’elevato indebitamento ereditato dall’era Gnutti-Colaninno e dai successivi passaggi di mano a vendere via via molte se non tutte le sue attività “non core”. Ancora oggi con un Margine operativo netto (Mon) calato al 17,5% dal 18% del 2017, il risultato corrente nel 2018 si è confermato pari al 10,3% mentre sul risultato netto (negativo del 7,6% rispetto al +5,8% dell’anno prima) ha pesato la valutazione da 2,6 miliardi dell’avviamento.

Proprio le svalutazioni (principalmente della divisione “core domestic”) hanno appesantito l’ultimo quinquennio di Tim, che ha così cumulato 2,8 miliardi di utili, ben lontano dai 14,58 miliardi di Telefonica, dai 14,48 miliardi di Deutsche Telekom o dai 13,2 miliardi di BT Group, ottenendo comunque il settimo miglior risultato al mondo, ancora una volta grazie quasi esclusivamente alla controllata brasiliana i cui utili cumulati sono stati pari a 2,1 miliardi. 

Avere tre quarti dei propri utili derivanti da una controllata che pesa per un quarto del giro d’affari complessivo, per di più in uno scenario in cui il mercato di riferimento (l’Italia) resta sotto pressione e la società continua a doversi confrontare con un indebitamento elevato non è mai un biglietto da visita ottimale per gli investitori. Il segnale positivo è dato dall’accelerazione degli investimenti e dalla diffusione del 5G che lascia sperare in un miglioramento futuro, ma dopo aver atteso per anni gli investitori vorranno vedere questi segnali tradursi in miglioramenti sensibili del bilancio, prima di ridare fiducia al titolo in borsa.

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