Netanyahu è un leader che incarna la forza, ma anche la fragilità. La sua rigidità nel difendere Israele diventa un limite - Affaritaliani.it

Esteri

Ultimo aggiornamento: 17:59

Netanyahu è un leader che incarna la forza, ma anche la fragilità. La sua rigidità nel difendere Israele diventa un limite

Analisi psicopolitica del primo ministro dello Stato ebraico

Di Alessandro Amadori, psicologo e politologo

Il trauma della perdita del fratello ha agito come catalizzatore di una missione personale: proteggere Israele a ogni costo
 

Benjamin Netanyahu è oggi una delle figure politiche più controverse e centrali del panorama internazionale. La sua leadership, segnata da una longevità senza precedenti nella storia di Israele, si è intrecciata con alcuni dei momenti più drammatici e polarizzanti della geopolitica contemporanea. 

Dopo il 7 ottobre 2023, con l’attacco di Hamas e la successiva guerra a Gaza, Netanyahu è tornato sotto i riflettori mondiali non solo come capo del governo israeliano, ma anche e soprattutto come simbolo di una politica di sicurezza radicale e intransigente, ai limiti della crudeltà. Le sue scelte, spesso percepite come tattiche più che strategiche, hanno suscitato reazioni contrastanti: da un lato il sostegno di una parte dell’opinione pubblica israeliana, dall’altro una crescente inquietudine nelle piazze europee, americane e arabe, dove il suo nome è associato a repressione, escalation militare e stallo diplomatico. 

In questo contesto, la figura di Netanyahu non è più solo quella di un leader nazionale, bensì quella di un attore globale il cui comportamento ha ripercussioni dirette sulla stabilità regionale e sulla percezione della democrazia in Medio Oriente e nel resto del mondo. È proprio questa centralità conflittuale che rende interessante un’analisi psicologica e psicopolitica del personaggio. 

Comprendere le motivazioni profonde, la struttura di personalità e le dinamiche relazionali che guidano Netanyahu significa gettare luce su un nodo cruciale della politica internazionale contemporanea. Perché dietro ogni decisione politica c’è sempre una mente e, dietro ogni mente, una storia.

La psicologia di un leader, specie se discusso e conflittuale, non può prescindere dalla sua biografia. Benjamin Netanyahu è figlio di Benzion Netanyahu, storico e ideologo del revisionismo sionista, e fratello di Yoni, eroe militare morto durante il raid di Entebbe nel 1976. Questo doppio imprinting – intellettuale e militare – ha generato in lui una tensione costante tra l’elaborazione ideologica e l’azione, tra la costruzione di una narrazione unitaria e la necessità di difenderla con la forza.

In particolare, il trauma della perdita del fratello ha agito come catalizzatore di una missione personale: proteggere Israele a ogni costo. Da qui nasce la sua visione del mondo nettamente polarizzata, in cui la sicurezza è il valore supremo e il nemico è sempre presente. La ricerca della leadership politica diventa così, al tempo stesso, una forma di elaborazione del lutto e di riscatto familiare. 
 
Le analisi psicologiche condotte su Netanyahu evidenziano tratti di elevata rigorosità (organizzazione, disciplina), bassa amabilità (riservatezza affettiva, diffidenza) e narcisismo funzionale (bisogno di controllo, centralità del sé). Nel suo caso, non si tratta di impulsività, bensì di una razionalità fredda e strategica, che privilegia il calcolo alla spontaneità.

Come leader politico, il suo stile di comando è verticale, centralizzato, difensivo. Netanyahu tende a non delegare, a proteggere e nascondere le proprie vulnerabilità, e a costruire alleanze strumentali. La sua comunicazione è spesso basata su meccanismi di radicalizzazione e proiezione: i critici vengono descritti come irrazionali, mentre gli errori non vengono mai ammessi apertamente.

Dal punto di vista psicopolitico, Netanyahu ha fatto della guerra uno strumento di legittimazione. Quando il consenso cala, quando le inchieste giudiziarie lo incalzano, quando la leadership vacilla, ecco che la minaccia esterna diventa il catalizzatore interno. Gaza, Hezbollah, Iran: ogni fronte è una possibilità di ricompattare il Paese e di riaffermare il proprio ruolo di “difensore supremo”.

Questa strategia ha funzionato per anni, ma oggi mostra segni di logoramento. La società israeliana è polarizzata, le opposizioni si rafforzano, e la fiducia nel leader vacilla. Eppure, Netanyahu continua a rilanciare, spinto da una visione del potere come destino personale, come missione storica, e forse anche come scudo contro una possibile vulnerabilità psichica.

In conclusione, Benjamin Netanyahu è un leader che incarna la forza, ma paradossalmente anche la fragilità. La sua determinazione è il frutto di una struttura psicologica rigida, costruita per resistere al dolore e alla perdita. Ma questa stessa rigidità è diventata un limite, soprattutto in tempi che richiedono empatia, dialogo e visione strategica.

Capire Netanyahu significa capire come la psicologia individuale si intreccia con la storia collettiva. E ci invita a riflettere su una domanda cruciale: che tipo di forza, e soprattutto di personalità, vogliamo davvero nei nostri leader?