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Esteri
"Scintilla in una polveriera". Effetti interni e regionali del caos in Kirghizistan

Prima le urne, poi le proteste, gli scontri con un morto e centinaia di feriti (al momento ne risultano 860), la liberazione dell'presidente Atambayev (del suo caso ne avevamo parlato qui), il risultato delle elezioni annullato, l'attuale presidente Jeenbekov che vacilla e il rischio di un effetto a catena regionale. Il Kirghizistan non si sta facendo mancare niente, in questi ultimi tre giorni a dir poco movimentati. Una escalation che ha preso il via con le elezioni legislative di domenica 4 ottobre (ne avevamo parlato alla vigilia nelle pillole asiatiche extra large e poi, qui, dopo l'annuncio dei risultati) ma che in realtà deriva anni di divisioni in un paese frammentato e ora anche colpito duramente dalla pandemia da Covid-19, sia dal punto di vista sanitario sia dal punto di vista economico. 

L'opposizione chiede un nuovo governo e il ritorno alle urne, mentre la Russia (preoccupata dall'apertura di un nuovo fronte all'interno della sua tradizionale sfera d'influenza) chiede che la crisi sia risolta senza l'uso della forza. Per fare il punto della situazione abbiamo intervistato Giulia Sciorati, analista del programma Cina di ISPI ed esperta di Asia centrale.

"MA LA CRISI DEL KIRGHIZISTAN E' MOLTO DIVERSA DA QUELLA BIELORUSSA"

Affaritaliani ha interpellato anche Giorgio Comai, ricercatore dell'Ossservatorio Balcani Caucaso ed esperto di questioni post-sovietiche. In particolare sul possibile paragone tra la crisi kirghisa e quella bielorussa. 

"Le dinamiche mi sembrano strutturalmente molto diverse, a partire dal punto di partenza" spiega Comai. "In Bielorussia vi è un sistema autoritario consolidato che è sempre stato in grado di mantenere stabilità grazie a un misto di tutele sociali e repressione dell'opposizione (un'opposizione, che, è giusto ricordarlo, fino a quest'anno in Bielorussia non ha comunque mai goduto di consenso diffuso). Il Kirghizistan ha dimostrato invece dinamiche politiche competitive e ripetuti cambiamenti  politici seguti a momenti di instabilità (in modo particolare, nel 2005 e 2010)", dice Comai.

"Per cercare di capire cosa sta avvenendo a Bishkek oggi mi sembra quindi più utile concentrarsi sulle fratture sociali e politiche che già in passato hanno portato ad instabilità e cambi di governo in Kirghizistan, piuttosto che cercare paralleli con un movimento popolare e trasversale come quello che, a due mesi di distanza dal voto, continua a mantenere notevole forza in Bielorussia", conclude Comai.

Giulia Sciorati, quali possono essere le conseguenze del risultato elettorale e delle proteste in corso per il Kirghizistan e per il presidente Jeenbekov? E quali scenari si aprono tra repressione e concessioni? 

Con l’annullamento della tornata elettorale di domenica, saranno i dettagli sulle nuove elezioni (se e quando ci saranno, come saranno regolate, quali strumenti saranno utilizzati per evitare che quello che sta succedendo in questi giorni si ripeta) a darci il tono del futuro della presidenza Jeenbekov e del cammino che intraprenderà il paese. Certamente alla base delle proteste ci sono ideali che fanno pensare alla richiesta di una maggiore democratizzazione da parte della società civile (per esempio, la denuncia della compravendita dei voti), ma resta da vedere se le richieste saranno abbastanza forti da raggiungere anche la leadership del paese.

Per una volta l’opposizione appare unita nella denuncia dei presunti brogli elettorali. E le proteste sono esplose nella capitale. C’è possibilità di un’azione condivisa sia tra le forze politiche di opposizione sia tra le diverse aree del paese?

Il Kirghizistan rimane uno stato frammentato, alla ricerca della propria identità statale e nazionale, poiché ancora fortemente radicato nella competizione per la rappresentazione clanica, un elemento che è tradizionalmente contrastato al livello delle istituzioni centrali. Jeenbekov ha ben chiaro che la più grande minaccia alla sua presidenza è senza dubbio una partnership stretta tra i partiti d’opposizione (dalla folla è infatti arrivata anche la richiesta delle sue dimissioni). Non a caso il Presidente ha chiamato un meeting d’urgenza tra gli esponenti di tutti e sedici i partiti kirghisi questa mattina e ha accolto la richiesta di annullamento della tornata elettorale da parte dei leader dell’opposizione. La stabilità delle relazioni tra i partiti d’opposizione sarà tuttavia determinata dalla capacità delle proteste di andare oltre la rivalità clanica.

Quale ruolo può avere in questo scenario l’ex presidente Atambayev dopo che è stato liberato dalla folla?

Non è un caso se il primo partito ad aver deciso di non riconoscere i risultati elettorali e iniziato le proteste sia proprio quello dei Socialdemocratici, costituito dai sostenitori dell’ex presidente Atambayev. La liberazione di Atambayev, in carcere con l’accusa di corruzione e partecipazione a omicidio colposo, è tuttavia altamente rappresentativa della contraddizione e della confusione che contraddistingue le proteste, almeno in questa fase. La richiesta di un più vero sistema elettorale democratico è infatti associata alla scarcerazione di un leader che incarna tutte le debolezze del tradizionale modo di fare politica in Tagikistan. Atambayev ha dalla sua, tuttavia, un vantaggio. Durante la sua presidenza, infatti, si è fatto portavoce di un processo per rafforzare l’armonia interetnica nel paese su cui potrebbe ora fare leva per mantenere salda la collaborazione tra i partiti d’opposizione.

 

Quale potrebbe essere il ruolo delle potenze più presenti in Kirghizistan (Russia e Cina) nel caso la situazione non si normalizzasse in modo rapido?

La Russia si trova in una posizione difficilissima: deve infatti far fronte a una serie di instabilità all’interno dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (l’alleanza difensiva che intrattiene dal 1992 con sei nazioni della Comunità degli stati indipendenti). Il conflitto tra Armenia e Azerbaigian, in primis, le proteste in Bielorussia e ora quelle in Kirghizistan. Kazakistan e Tagikistan, al momento, rimangono gli unici partner stabili, anche se le imminenti elezioni a Dushanbe potrebbero creare nuove tensioni. Di tutte le repubbliche centrasiatiche, il Kirghizistan è uno di quelle dove la Cina ha investito di meno: 4,7 miliardi di dollari dal 2005 contro i 35,5 miliardi riservati al Kazakistan. Sebbene Russia e Cina abbiano interessi (e influenze) concrete nella regione (per esempio, attraverso l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione), l’Asia centrale ha negli ultimi anni riscoperto l’idea di una cooperazione interna e regionale: pertanto, un candidato più promettente per la mediazione potrebbe essere proprio il Kazakistan che ha di recente sperimentato una solida transizione politica che ha consentito al paese di dare il via a riforme giuridiche importanti (da poco è stata cancellata la pena di morte, per esempio).

Domenica si vota anche in Tagikistan. Quanto sta accadendo a Biskek può influenzare in qualche modo il paese limitrofo?

Se ne discuteva anche la scorsa settimana con Eleonora Tafuro Ambrosetti e Aldo Ferrari dell’Osservatorio Russia, Caucaso e Asia Centrale di ISPI in una conferenza sul conflitto in Nagorno-Karabakh e le ripercussioni sul Caucaso. Le instabilità politiche in uno spazio come l’Asia Centrale corrono il rischio di innescare una “scintilla in una polveriera” poiché si tratta di un’area dove processi di state- e nation-building sono ancora in corso. Il Tagikistan, la repubblica centrasiatica più povera e di conseguenza maggiormente affaticata dalla pandemia, è ancora più a rischio di paesi come Kazakistan o Uzbekistan, economicamente più saldi, di uno spillover in questi termini. Nella migliore delle ipotesi, le elezioni tagike saranno altamente monitorate, non solo dalle classiche missioni elettorali internazionali, ma soprattutto dalla popolazione e, in caso di aperte irregolarità, il rischio di episodi come quelli di questi ultimi giorni in Kirghizistan non è da escludere.

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